L’Isola Che Non C’era – 2

Pubblicato da Blicero il 7.06.2008

La lunga serie di depistaggi e di inquinamenti che affastellano la storia dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica inizia poco dopo l’avvenimento della strage. Ad incominciare dalle cause della caduta. La prima ipotesi accreditata è quella del cedimento strutturale, che comincia a circolare dai primissimi momenti dell’indagine aperta immediatamente dalla magistratura e dal governo. Al seguito di questa, vengono fatte circolare ulteriori, e decisamente più stravaganti, ipotesi, quali la caduta di un meteorite, il cedimento “psicologico” dei piloti, l’ammaraggio, con conseguente galleggiamento (durato 10 ore) e annegamento dei passeggeri (è bene ricordare che il DC9, senza danni strutturali di sorta, aveva un’autonomia di galleggiamento di 4 minuti) e altre amenità del genere. Ipotesi, «parti di fantasie tanto fervide quanto inquinanti», tutte rigettate con forza.

Il giudice Priore scrive, infatti, che «attraverso l’esame critico di cento e oltre documenti tecnici elaborati con intelligenza e vigore polemico da una schiera tra le migliori di specialisti nelle varie dottrine che son servite», sono da escludersi «con più che sufficiente certezza» le succitate cause di caduta del velivolo. Restano dunque in piedi le tre tesi più probabili. Ovvero quella dell’esplosione interna causata da una bomba, quella del missile esploso nelle immediate vicinanze del DC9 e quella della “near collision” (quasi collisione), provocata dagli spostamenti di aerei militari nei vicinissimi pressi della linea di volo dell’areo Itavia. Le perizie disposte prima dal giudice istruttore Bucarelli, ed in seguito da Priore, accreditano prima la tesi del missile e poi, anche grazie al recupero (il 96%, ricostruito e messo a disposizione dei periti e dell’autorità giudiziaria nell’hangar di Pratica di Mare) del relitto, si spostano sull’ipotesi della bomba a bordo.

Ma gli stessi collegi peritali più e più volte si spaccano e si dividono al loro interno, presentando relazioni tra loro discordanti, pur non escludenti la tesi opposta. Tant’è che nell’ordinanza si legge che «appare difficile sulla base delle evidenze sin qui raccolte risolvere il contrasto tra le opposte tesi». Di più: la sequenza dei fatti che hanno portato al disastro aereo «può essere accaduta sia in un modo che nell’altro, ma non v’è prova nè dell’una nè dell’altra». L’accertamento processuale dei fatti, anche nei successivi gradi di giudizio (su cui si tornerà più avanti), non ha portato ad alcun risultato concreto ed incontrovertibile. Si può solamente, dunque, andare per supposizioni. Partendo dagli elementi esterni all’aereo.

Il contesto, infatti, è pacificamente delineato e documentalmente provato. Quella sera, in quella zona, il traffico aereo era piuttosto denso. Dalle comunicazione radio si evince che in zona vi fosse un «intenso traffico militare statunitense». Risulta inoltre che la «situazione complessiva nel Tirreno», ricavata da documenti NATO acquisiti agli atti, «riconosce i voli e la possibilità della presenza di portaerei». Da una perizia radaristica si era individuata la presenza di almeno sette o otto velivoli di nazionalità diversa. Lo scenario esterno, quindi, si presenta estremamente «complesso»: c’era un «un velivolo si nascondeva nella scia del DC9», altri che «si sono inseriti e hanno seguito da presso la rotta di quel velivolo e poi se ne sono distaccati, lanciando emergenza», alcuni «aerei militari in esercitazione» nei dintorni di Ponza e del Tirreno e, probabilmente, «una portaerei».

Oltre alla suddetta ricostruzione, sulla Sila, il 18 luglio successivo, viene ritrovato un MIG libico. La versione ufficiale, cioè quella di comodo prospettata sin dal rinvenimento dai militari e dalle fonti d’intelligence, vuole che il velivolo sia caduto in data diversa da quella di Ustica e per mancanza di carburante. Nell’ordinanza, però, Priore scrive che «più sono gli elementi di prova che quel MiG23 cadde in tempo ed occasione diversi da quelli prospettati nella versione ufficiale», e che «è caduto in conseguenza di abbattimento e probabilmente anche per mancanza di carburante, perchè inseguito da altri velivoli da caccia, e quindi per effetto di un vero e proprio duello aereo, un episodio di natura bellica, avvenuto sul nostro territorio, ad opera di velivoli stranieri». Le conclusioni dell’ordinanza, quindi, si dirigono principalmente verso l’ipotesi della “near collision”, che è pure astrattamente plausibile, ma che è senza fondamenti significativi nella storia dell’aeronautica. Appare dunque difficile accreditare del tutto questa tesi.

Quelle più plausibili rimangono, pertanto, quelle della bomba e del missile: le quali però si escludono l’una con l’altra. E non senza ripercussioni sul piano politico. Infatti, il “partito della bomba” ritiene che a piazzarla siano stati i libici, e che il cielo fosse sgombro. Quelli de “il partito del missile”, di contro, ritengono che vi sia stato «un atto di guerra», cioè una battaglia aerea tra forze militari straniere (americane e libiche) su suolo italiano, nella quale vi è rimasto tragicamente in mezzo il DC9. Ma non ci sono prove inconfutabili né in un senso, né nell’altro, ad esclusione del provato quadro esterno attorno al DC9.

Del resto, se non ci sono i riscontri, è perchè sin dall’inizio delle indagini, come già detto in precedenza, è stata condotta una massiccia operazione di depistaggio ed inquinamento probatorio. Oltre alle «devastazioni documentali» (specialmente per quanto riguarda i centri radaristici e le torri di controllo) che hanno compromesso la fase iniziale delle indagini, si devono aggiungere le «chiusure ermetiche in una serie infinita di personaggi di basso e alto, se non altissimo livello e non solo nell’AM [Aeronautica Militare] […] ma pure in altre sedi militari e non». Insomma, «chi guidava questi attacchi sicuramente era a conoscenza che non v’era quasi più possibilità di ricostruire il prima e il dopo come l’intorno spaziale dell’evento, essenziali per la comprensione dei fatti, perchè tutto era stato distrutto, o era scomparso». Ed, infatti, «la sistematica distruzione di prove» era in esecuzione «di un preciso progetto che doveva impedire ogni ricostruzione dei fatti».

Un progetto che «ha colpito in tutti i livelli a salire sino allo Stato Maggiore» e si è realizzato «in tutti quei gangli essenziali delle istituzioni ove si conservavano documenti e memorie degli eventi». In definitiva, tale disegno era «concepito per non rivelare fatti ed eventi che non potevano esser palesati e che ha trovato realizzazione nella erezione di quella muraglia, più che muro, di silenzio o insostenibili menzogne; che si è estesa lungo tante, troppe istituzioni, nazionali e di altri Paesi e per anni non s’è nemmeno sbrecciata. Le cui dimensioni e resistenza sarebbe assurdo definire casuali e non effetto di quel progetto». Come scrive Marco Paolini, forse «qualcuno troverà quelle prove e scriverà un libro intitolato USTICA e credo che non sarà un italiano. Per fortuna non sarà un italiano, un italiano non sarebbe credibile e il libro non sarebbe un best seller.»

(Prima ParteTerza Parte)

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Rilasciato il 07.06.08

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