Le Lucciole Non Ci Illumineranno Più
I – Espirare
“Ci troviamo di fronte a trame intessute segretamente, da chi ha mezzi e obbiettivi precisi…” La voce del sindacalista Cisl Franco Castrezzati si leva nitida e profonda nella mattinata del 28 maggio 1974, una voce che si diffonde all’interno del perimetro delimitato da palazzi, arcate e decorazioni scultoree, le parole accompagnate dalla palpabile vibrazione collettiva che attraversa la folla radunata per la manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista.
“…Sono così venuti alla luce “uomini di primo piano”, “mandanti” e “finanziatori” che, senza scoprirsi, possono camuffare le loro trame, con tinte diverse da quella vera”. Piove, piove sulla speranza di pacificazione civile e sociale di una città, di un popolo, di una nazione. Piove sugli impermeabili, sui maglioni e sulle giacche. I portici, unico riparo dalle intemperie della natura, sono gremiti di manifestanti. Di solito durante le manifestazioni il porticato è occupato dalle forze dell’ordine, pronte ad intervenire nel caso qualcosa vada storto. Ma non quel giorno.
“Si vogliono cioè sovvertire le istituzioni democratiche della nostra repubblica”. Piove, ed è una pioggia che in ogni singola, funesta goccia racchiude la spaventosa escalation di violenza innescata a Brescia, nei mesi precedenti, da gruppi della destra radicale. La svolta terroristica è arrivata tra il 3 e il 4 febbraio 1973, un terribile sfolgorio nell’oscurità: un ordigno al tritolo ha sventrato completamente la Federazione provinciale del Psi. A seguire, un’impressionante serie di attentati in parte riusciti, in parte mancati.
“A questo fine si strumentalizzano i giovani, i meno responsabili, spesso ancora adolescenti, come avviene in ogni parte del mondo quando si vogliono soffocare le aspirazioni di progresso, di giustizia e di democrazia dei popoli”. Da una mano ignota ed ignobile scivola un pacco dentro un cestino sotto il porticato accalcato. Una bomba. L’ennesima. Qualche altra mano, o forse la stessa, la aziona con un congegno elettronico. Mutare tutto per non mutare nulla. Ancora, per sempre. “Sembra che la storia si ripeta, e cioè che anche oggi non si scavi in profondità, che non si affondi il bisturi risanatore fino alla radice del male”. Sono le 10.12 in Piazza della Loggia, Brescia, e in quel preciso istante un boato sordo risucchia nel vortice della deflagrazione terroristica 8 vite umane e ne ferisce 94. Non c’è tempo di pensare all’intelaiatura delle trame segrete: ci si è dentro, puramente e semplicemente, soffocati dal fumo, i timpani suonati come un gong, i brandelli sparsi per terra, macabro risultato della cucitura eversiva.
Smette di piovere, anche il clima è rimasto intrappolato in quella micidiale sospensione, il tempo si è perso nella brutale transizione. Un cordone si forma a protezione di un uomo – la mano a stringere disperatamente la fronte, esemplare vittima collaterale della strage – inginocchiato su un cadavere pudicamente coperto da una bandiera. Il corpo esanime apparteneva ad Alberto Trebeschi, 36 anni, insegnante, militante del Pci. Le lacrime sgorgano dal fratello, Arnaldo. Anche la cognata Clementina Calzari, 32 anni, non tornerà mai più. Insieme a tutti gli altri.
II – Fantasmi
Fine settembre 2009, una-due generazioni dalla conflagrazione di piazza della Loggia. Nell’aula della Corte d’Assise di Brescia si svolge l’udienza dell’ennesimo processo, il terzo in tre decadi. Quelli precedenti non hanno accertato alcuna responsabilità. Il solito, odioso copione della procedura penale gonfia, ipertrofica e chicaneuse non risparmia nemmeno i processi per strage. Anzi. Il pubblico dell’udienza si conta su due mani, sono solo otto le persone interessate a questo processo. La gabbia degli imputati è desolatamente vuota – come lo è sempre stata, del resto. Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Pino Rauti, Francesco Delfino, Giovanni Maifredi: agenti dei servizi, carabinieri, vecchie conoscenze dell’eversione nera. L’unico a presentarsi qualche volta è stato Maurizio Tramonte, la “fonte Tritone” del Sid infiltrata in Ordine Nuovo. Gli altri non si sono mai fatti vedere.
In udienza la domanda più frequente dei magistrati è: “Riesce a collocare l’episodio nel tempo?” Risposta: “Non ricordo”. Del resto, di cosa stupirsi? In 35 anni la memoria di una persona seleziona, ripulisce, epura e depura gli avvenimenti di una vita che si affastellano e sovrappongono l’uno sull’altro, costantemente. I tempi gargantueschi della giustizia italiana, inoltre, sono troppo spesso quelli di un universo parallelo estraneo e ostile alla maturità sociale e alla memoria civile di un Paese adulto – un ulteriore puntello che non fa altro che aggravare un contesto già di per sé cronico. “Non mi aspetto giustizia” da questo processo, dice l’avvocato Alfredo Bazoli, figlio di Giulietta Banzi, spazzata via dalla faccia della terra a piazza della Loggia. Non se l’aspetta nessuno.
Debolezza, impotenza di fronte ai crimini occulti del passato remoto il cui fragore si propaga insoluto fino al nostro presente. Un passato irrisolto giudizialmente, ma non interamente nebuloso. L’infrastruttura neofascista, militare e d’intelligence è stata resa tangibile grazie alle cataste di documenti processuali, alle novecentomila pagine di verbali, alle commissioni parlamentari d’inchiesta e alla saggistica – una concatenazione di pezzi disorganizzati e frammentari, dolorosamente ricomposti in un coerente quadro politico.
Gruppi come Ordine Nuovo o Avanguardia Nazionale erano perfettamente consci dei propri limiti, sapevano di non poter prendere il potere da soli. Ma sapevano altrettanto bene che potevano imporre all’opinione pubblica le condizioni per l’accettazione di una svolta autoritaria, fungere da detonatore, agire affinché altri (i militari) si muovessero. Sono state due le fasi più intense e rilevanti in cui il progetto stragista si è sviluppato: 1969-1970 e 1973-1974. Le tre grandi stragi insolute hanno scandito con le loro lugubri detonazioni lo stato dell’arte delle operazioni eversive. Tra i due momenti, tuttavia, si coglie una differenza significativa: la strage di piazza Fontana (in realtà lo stesso giorno vi furono altri quattro attentati, tra Milano e Roma) dissodò il terreno per un vero e proprio tentativo di colpo di stato, il Golpe Borghese, che tuttavia non approdò ad alcun risultato, arrestandosi nelle fasi iniziali. Nel ’73-’74, invece, l’aspirazione golpista venne accantonata a favore di una serie di attentati volti alla proclamazione di una Repubblica presidenziale di carattere autoritario.
“Uomini come me hanno lavorato perché in Italia si arrivasse a un colpo di Stato militare”, disse Guido Giannettini in un’intervista.
“Il colpo di stato è un piatto che va servito caldo”.
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