In Morte Di Uno Jugoslavo
È morto Ante Marković, ormai un paio di settimane fa (la notte del 28 novembre, per l’esattezza), ma l’ho saputo solo questo fine settimana: me l’hanno detto al momento di chiedermi questo necrologio. Era da un po’ che non mi chiedevo, sfogliando un libro o saltando di link in link tra pagine marginali di internet, che fine avesse fatto lui o qualche altro personaggio di quel teatro tragico e farsesco che sono stati il declino e la fine della Jugoslavia.
Si scrive spesso in questi casi che l’opera del defunto non verrà dimenticata, che quanto da lui costruito resterà e funzionerà a lungo: ma per Marković no, questo discorso non si può proprio fare. Ciò per cui invece il politico croato di Bosnia ed ex jugoslavo è stato maggiormente noto è un’impresa grande, ambiziosa e nobile, ma fallita.
Ante Marković era nato nel 1924 a Konjic, oggi Bosnia-Erzegovina, in una cittadina sorta nel poco spazio che la Neretva è riuscita a sottrarre in qualche migliaio di anni a due file di montagne alte e boscose. Nello stesso luogo, in mezzo a quell’Erzegovina combattuta tra un Islam aristocratico e conservatore e l’opera sotterranea e tenace dei frati francescani, aveva avuto i natali un altro sconfitto, Ante Pavelić: ma non ci sono altri punti di contatto fra il Poglavnik dei croati, e la sua prassi di devastazione, e Marković, che provò fino all’ultimo a ricostruire ed unire quel che già si andava dilaniando. L’adolescente Marković, come molti adolescenti, fu comunista; durante la guerra fu partigiano, come non moltissimi croati, almeno nella prima fase della rivolta di Tito; a trent’anni si laureò in Elettrotecnica all’Università di Zagabria; in seguito si impiegò in una ditta zagrebese che si chiamava e si chiama tuttora (oggi è una bella industria attiva anche da noi e in decine di altri paesi) “Rade Končar”, in omaggio a un partigiano serbo di Croazia fucilato dagli italiani a Sebenico: qui l’abile Marković divenne ben presto direttore generale, ruolo che ricoprì per ventitré anni, tra 1961 e 1984.
Poi gli tornò il tic della politica, e divenne per un biennio presidente dell’inquieta Repubblica di Croazia. Nel marzo 1989 si trovò quasi per caso a dover sostituire il dimissionario Branko Mikulić – un altro croato di Bosnia – come presidente federale, una carica che aveva peraltro scarsa autonomia nella Jugoslavia socialista. Il partito unico, infatti, monitorava la presidenza e la bloccava con valutazioni pignole e spesso paralizzanti, contraddittorie com’erano; in quegli anni, d’altronde, il potere se lo spartivano ormai gruppi di a base regionale, o meglio etnica. Solo che nel gennaio del 1990 la Lega dei comunisti si sciolse, per via dei contrasti tra serbi e sloveni. Marković si trovò solo, in un paese che diffidava dei vecchi potenti e che si preparava alle prime elezioni libere, e approfittò di quella solitudine per agire come un rivoluzionario: dichiarò che avrebbe salvato la Jugoslavia, e provò a farlo con un pacchetto di riforme economiche che, nella prima metà del 1990, portarono l’inflazione dal 2500% annuo all’1% mensile, contrassero del 20% il debito estero, triplicarono le riserve in valuta.
Non tutti i provvedimenti di Marković, tuttavia, furono giusti, efficaci o fortunati: la disoccupazione saliva, mentre il paese continuava ad impoverirsi. Le elezioni in varie repubbliche, intanto, davano solide maggioranze ai nazionalisti (anche grazie a leggi elettorali eccentriche: in Croazia un 40% dei voti bastò a garantire a Tuđman i due terzi dei seggi), i quali ovviamente non potevano collaborare all’intento di Marković di salvare l’unità della Jugoslavia.
(Una studentessa di Scienze Politiche, nata a Sarajevo da padre croato e madre musulmana, mi disse un giorno che le elezioni dovrebbero essere sospese in tempi di crisi economica; io non provai neanche a confutare la sua tesi, ritenendo che non si trattasse di una rozza valutazione di scienza politica, bensì di un semplice giudizio storico).
Ma a condannare Marković fu forse la sua ambizione. Nel luglio del ’90, spinto dalla sua enorme popolarità (di lui gli jugoslavi si fidavano, perché vedevano una volontà positiva dietro riforme economiche che potevano anche essere sbagliate e dolorose), il presidente federale fondò un partito. Da quel momento in poi i nazionalisti che non l’avevano aiutato iniziarono a sabotarlo: Serbia e Slovenia gli impedirono di cambiare la costituzione nelle sue parti economiche; la Croazia smise di rispettare le leggi federali e prese a farne di proprie, spesso usandole contro la minoranza serba; Milošević, dal canto suo, boicottò lo sforzo federale di risanamento facendo contrarre alla Serbia un debito gigantesco e illegale. Soprattutto, in un ammirevole slancio comune, i nazionalisti di tutto il paese combatterono e impedirono la convocazione, prevista da Marković, di elezioni politiche federali. Pian piano le repubbliche si presero tutti i poteri sull’economia e sulla politica, e presto arrivarono alla difesa; a Marković non rimase, di fatto, nulla. Quando fu deciso di spedire l’esercito del popolo (però senza munizioni e rifornimenti) contro una parte stessa della Jugoslavia, la Slovenia, al presidente federale non dissero nulla, perché sapevano che lui non sarebbe stato d’accordo.
Quel 25 giugno morì l’ambizioso progetto di Ante Marković e con esso l’intera Jugoslavia. Il presidente federale si sarebbe dimesso solo nel dicembre, in ogni caso, per non venire mai più sostituito; Marković, che un mestiere ce l’aveva già ed era anche bravo, tornò a dedicarsi agli affari. Si sentì parlare di nuovo di lui solo nel 2003, quando affermò davanti al Tribunale dell’Aja che la spartizione della Bosnia era già stata decisa da Milošević e Tuđman ben prima dell’inizio della guerra.
Adesso Ante Marković è morto. Resta il suo sogno e il suo fallimento, tanto grande da non poter essere ignorato, tanto utopico da diventare quasi reale e fisico; e somiglia a certi monumenti jugoslavi, dispersi nelle valli della guerra partigiana però giganteschi e incancellabili, che paiono più belli adesso che non hanno più significato. Ma chissà che il suo fallimento non si riveli presto più sensato e lungimirante, ora che l’ex Jugoslavia entra alla spicciolata in Europa, dei piccoli egoismi che l’hanno sconfitto.
#1
Charles Benson
Tra le tanti notizie pesanti degli ultimi giorni, questa mi rattrista particolarmente:
ormai di veri jugoslavi ne sono rimasti pochi;
dalle parole di questo necrologio sembra che il defunto avesse molta tempra
e parecchia etica, come più o meno da piccolo immaginavo fossero gli jugoslavi.
Riposi in pace