Il Grande Rogo Americano Dei Videogiochi
Una settimana dopo la strage di Newtown, Wayne La Pierre (vice presidente della National Rifle Association) aveva già capito cosa avesse spinto il ventenne Adam Lanza a falcidiare con un fucile Bushmaster 20 bambini, la madre, 6 adulti e se stesso. Le sue mirabolanti scoperte furono esposte in un’affollata e attesissima conferenza stampa.
Ed ecco un’altra piccola, scomoda verità che i media cercano di nascondere in tutti i modi. Purtroppo, in questo paese esiste un’industria-ombra disumana, corrotta e corruttrice che vende e rivolge la violenza contro la propria gente, attraverso videogiochi brutali e malvagi con titoli quali “Bullet Storm”, “Grand Theft Auto”, “Mortal Combat” e “Splatterhouse.”
Ce n’è anche un altro che si chiama “Kindergarten Killers”. È online da dieci anni. […] Parlate pure di un uragano, di un altro disastro naturale. Voglio dire, ci sono film intrisi di sangue tipo “American Psycho”, “Natural Born Killers.” Li trasmettono […] ogni singolo giorno.
1.000 video musicali, lo sapete tutti, ritraggono la vita come se fosse uno scherzo e dipingono l’omicidio come uno stile di vita. E hanno pure il coraggio di chiamarlo intrattenimento. Ma si tratta veramente di questo? Fantasticare sull’omicidio non è forse la più ripugnante forma di pornografia che possa esistere?
E cosa fanno le società più evolute e avanzate del III millennio nei confronti della pornografia? Semplice: la ammassano in piazza e le danno fuoco – richiamandosi alla nota tradizione inaugurata in Europa Centrale negli anni ’30 dello scorso secolo.
Nella cittadina di Southington, non molto distante da Newtown, la SouthingtonSOS (un’associazione nata nel 2005 dopo l’uragano Katrina) ha messo in piedi il Violent Video Games Return Program, un’iniziativa prevista per il prossimo 12 gennaio che ha come scopo il rastrellamento la raccolta di videogiochi violenti (ma anche film e musica, purché siano «violenti») dalle famiglie del luogo. Queste, in cambio, riceveranno un voucher di 25 dollari da impiegare in forme di divertimento più «sane». I dischi saranno poi spezzati, gettati nei cassonetti e bruciati nell’inceneritore.
Dopo il 14 dicembre 2012, il sovrintendente della Southington School Joe Erardi era stato sommerso dalle email di «genitori preoccupati», ansiosi di aiutare la loro comunità e quella di Newtown. Tormentati e angosciati, Erardi e l’associazione non sono riusciti a partorire altro che un bel rogo di videogiochi. «Ci sono giovani che appaiono consumati dai videogiochi violenti – ha detto il sovrintendente a Polygon – Non sono sicuro che sia una cosa buona. Se questo però incoraggia una conversazione coraggiosa tra genitori e figli, allora è un successo».
Chissà cosa intende Erardi per «conversazione coraggiosa». Forse una cosa del genere: tornati a casa dal lavoro, Madre & Padre si accorgono inorriditi che il Figlio, chiuso in camera sua, sta giocando a Fallout: New Vegas. Immediatamente Madre & Padre urlano, intimano al Figlio di smetterla e minacciano di bruciare dvd, Xbox e computer. Il Figlio rifiuta, urlando a sua volta. In salotto, intanto, una fila di fucili semiautomatici e una mezza dozzina di Glock scintillano sotto la lussuosa teca, pronte a essere usate a scuola o sul posto di lavoro. Un «successo», no?
E non è finita qui. In un comunicato stampa che scala agevolmente l’Everest dell’Idiozia, la SouthingtonSOS ha tentato di spiegare i motivi che stanno alla base dell’iniziativa:
L’azione del gruppo non dev’essere intesa come una dichiarazione che addita i videogiochi violenti come i responsabili dell’agghiacciante violenza scatenatasi a Newtown lo scorso 14 dicembre. Piuttosto, SouthingtonSOS sta dicendo che ci sono prove concrete sul fatto che i videogiochi violenti, insieme agli altri tipi di media violenti […], abbiano contribuito all’incremento di aggressività, paura, ansia e stiano rendendo insensibili i nostri ragazzi agli atti di violenza o bullismo.
Non fa una grinza: si organizza un rogo di videogiochi (atto chiaramente distensivo) per portare conforto alla comunità di Newtown, negando al contempo che i videogiochi siano i responsabili dello stato mentale di Adam Lanza, salvo poi dire che forse, in fondo, qualche responsabilità possano avercela.
Christopher J. Ferguson, capo del dipartimento di psicologia e comunicazione della Texas A&M International University, ha fatto a pezzi l’iniziativa di SouthingtonSOS in un’intervista a Polygon: «È un classico caso di panico morale. Quando si verifica un evento traumatico come questo […] le persone tendono ad incolpare i media. Ci fa sentire come se noi avessimo compreso a fondo gli eventi e che sappiamo come aggiustare le cose».
Ferguson cita anche il panico morale che aveva colpito gli Stati Uniti degli anni ’50 nei confronti dei fumetti: «All’epoca c’erano psichiatri che, davanti al Congresso, dicevano che i fumetti non solo erano la causa della criminalità, ma anche dell’omosessualità. Ora, tornando indietro, ci stupiamo: “Oddio, non posso credere che negli anni ’50 la gente credesse che i fumetti fabbricassero killer” […]. Ma non abbiamo mai imparato la lezione. Ci facciamo assalire dal panico ogni volta che compare un nuovo media».
Nel caso di Newtown, i tabloid inglesi si sono gettati a corpo morto sui videogiochi. Una copertina del Sun recitava a caratteri cubitali: «KILLER’S CALL OF DUTY OBSESSION». All’interno del giornale, un articolo di due pagine (intitolato “BLACK OPS BUNKER”) si avvaleva della testimonianza dell’idraulico Peter Wlasuk per dimostrare che Adam Lanza era «ossessionato da Call of Duty», quindi era un «drogato di videogiochi controversi», dunque doveva essere un assassino di massa in pectore. Il tutto su un giornale che aveva dedicato a Call of Duty: Black Ops 2 recensioni a dir poco entusiaste, arrivando anche a definirlo «lo sparatutto del futuro».
Un servizio della CNN, oltre a riportare la sconvolgente notizia del fatto che Lanza giocava a Starcraft alle superiori, interpellava Craig Anderson (professore all’Iowa State University) in merito alla correlazione tra videogiochi e violenza.
Anderson spiegava che «le maggiori società scientifiche hanno studiato la questione e sono pervenute alla medesima conclusione […]. La violenza dei media è un fattore di rischio causale in grado di provocare un comportamento aggressivo, inclusa la violenza». Il professore menzionava anche uno studio della International Society for Research on Aggression, omettendo però un piccolo dettaglio: Anderson è il presidente della ISRA nonché il committente della ricerca. Un lungo articolo di PCGamer l’ha polverizzato anche da un punto di vista metodologico.
Sul versante statistico, invece, la questione è molto più netta: non c’è alcuna correlazione tra videogiochi e omicidi per arma da fuoco. Max Fisher del Washington Post ha comparato il tasso di omicidi dei primi 10 Paesi consumatori di videogiochi. Questo è il risultato.
Se ci fosse un legame diretto tra videogiochi e omicidi, la Corea del Sud (dove le persone giocano a Starcraft per lavoro) e l’Olanda sarebbero delle nazioni spopolate – o direttamente post-apocalittiche.
Appurato che la posizione massimalista è priva di fondamento, nemmeno quella minimalista (ossia: «i videogiochi non c’entrano nulla») è sufficiente a spiegare le sparatorie scolastiche, che comunque rimangono un fenomeno ai limiti dell’incomprensibilità. La posizione più articolata sul tema si trova in Rampage. The Social Roots of School Shootings, uno studio del 2005 condotto da un’equipe di ricercatori guidati da Katherine S. Newman e finanziato dal governo federale.
La Newman, utilizzando il concetto di «sceneggiature culturali», scrive che i videogiochi (e i film, i libri, ecc.) non sono il motivo principale per cui si imbracciano le armi, ma possono «modellare il progetto di sparatoria». Il caso del 14enne Barry Loukaitis è esemplare.
Loukaitis passò la mattina del 2 febbraio 1996 a preparare l’appuntamento con la strage: cappello da cowboy, stivali, impermeabile nero, cinturone da 72 colpi, due pistole in altrettante fondine e un fucile da caccia nascosto dentro l’impermeabile. Verso le 2 di pomeriggio, il ragazzo arrivò a scuola (la Frontier Middle School a Moses Lake), entrò nella sua classe di algebra e sparò, uccidendo l’insegnante di algebra e due studenti (uno dei quali era un bullo che l’aveva maltrattato). Di seguito ordinò ai compagni di mettersi contro il muro e per 10 minuti tenne la classe in ostaggio, prima di essere disarmato da un insegnante di ginnastica. Gli studenti dissero che Loukaitis era calmissimo: sembrava quasi che avesse provato e riprovato la scena.
La polizia scoprì che in effetti era così. Gli agenti trovarono sul comodino di Loukaitis Rage, una novella di Stephen King (firmato con lo pseudonimo Richard Bachman) in cui un ragazzino tiene in ostaggio la sua classe di algebra con una pistola, uccide l’insegnante di algebra e minaccia di uccidere uno studente particolarmente popolare a scuola.
Il libro, che è del 1977, “ispirò” almeno altri tre killer scolastici. A nessuno è mai venuto in mente di bruciare i libri di King in piazza.
Per gli school shooter, insomma, «libri, tv, film e canzoni influenzano la decisione di indirizzare la loro rabbia all’esterno invece all’interno; forniscono una giustificazione agli attacchi indiscriminati. Sono un insieme di didascalie teatrali». E il teatro, naturalmente, è la scuola e tutto quello che rappresenta.
Nei giorni a ridosso del massacro di Newtown, il dibattitto nazionale americano si era giustamente incentrato sulla disponibilità di armi da fuoco nel Paese. Secondo Jill Lepore del New Yorker,
Negli Stati Uniti ci sono quasi 300 milioni di armi da fuoco in mano a civili: 106 milioni di pistole, 105 milioni di fucili a doppia canna e 83 milioni a canna singola. Questo significa circa un’arma per ogni statunitense. […] Gli Stati Uniti sono il Paese con il tasso più alto al mondo di armi possedute da civili (al secondo posto c’è lo Yemen, dove comunque la percentuale è la metà di quella statunitense).
Max Fisher, in un altro grafico, mostra come gli Stati Uniti siano, tra i Paesi più “civilizzati” del mondo, quello con il più alto tasso di omicidi per armi da fuoco.
Com’è possibile che di fronte a dati così certi – e agghiaccianti – gli americani siano in grado di pensare che bruciare dei videogiochi eviterà altre Newtown?
La risposta va rintracciata nel 1977, quando una specie di golpe portò ai vertici della National Rifle Association un manipolo di fascisti & fanatici delle armi capeggiati da Harlon Carter.
Negli anni ’50, ricorda Lepore, le finalità della Nra erano «l’educazione alla sicurezza nell’uso delle armi, l’addestramento al tiro, l’utilizzo a scopi ricreativi». Negli anni ’60, «ottenere il beneplacito costituzionale al possesso di armi interessava più ai nazionalisti neri che all’Nra». Dopo l’avvento di Carter, l’Nra «cominciò a sostenere che il secondo emendamento garantisce il diritto individuale a portare armi, non quello collettivo a formare milizie per la difesa comune». Grazie allo sfrenato lobbismo politico-culturale della Nra
tra il 1968 e il 2012, l’idea che negli Stati Uniti possedere e portare un’arma è un diritto fondamentale di qualsiasi cittadino è stata ampiamente accettata e, con essa, il principio della sua assoluta inviolabilità. Le leggi sul controllo delle armi sono state ammorbidite, abrogate, stravolte o lasciate scadere.
La sensazione è che sarà così ancora per molto, anche in uno scenario post-Newtown: si è partiti dalla promessa di Obama di rimettere il divieto (scaduto nel 2004 e mai rinnovato) alla vendita di armi d’assalto e si è arrivati ai roghi di videogiochi.
A Southington potranno anche esserci una dozzina di copie di Call of Duty in meno, ma l’Nra continuerà a corrompere politica e psiche degli Stati Uniti, i falchi alla Wayne LaPierre pontificheranno su violenza e Mortal Kombat e i nerd alla Adam Lanza si sveglieranno una qualunque mattina per andare a scuola e – con le armi che i genitori hanno entusiasticamente comprato – spargeranno litri di sangue innocente sui pavimenti tirati a lucido e sulla coscienza sporca di un’intera Nazione.
(Illustrazioni: Latuff)
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Drop the Hate / Commenti (3)
#3
#1
bruno saetta
Interessantissimo. Tra l’altro una sentenza della Corte Suprema Usa, bocciando un decreto della California che voleva introdurre divieti in materia di videogame, ha precisato che dagli studi non risulta nessuna connessione tra l’esposizione alla violenza e possibili effetti dannosi sui minori, e in particolare non c’è dimostrazione alcuna che l’esposizione a videogiochi violenti possa avere effetti diversi dall’esposizione alla violenza di altri media come ad esempio la televisione o i libri. http://www.supremecourt.gov/opinions/10pdf/08-1448.pdf