Dal Bivacco Sulle Rovine
Primavera mesta, tempo incerto, vaga assicurazione di disfatta. Sole flebile, freddino moderato. Il verde dei campi è spento, ai lati del treno che pigramente sferraglia a destinazione. Disgusto misurato. Vorrei che non ci fosse nessuno nella carrozza ma non è possibile, si lavora e si deve creare reddito, la videocrazia non fa prigionieri e non ammette saldi.
Giocatori di totocalcio, niente più
In momenti simili, cioè frequentissimi, bisognerebbe prendere il mano il “Diario degli errori” di Ennio Flaiano (il quale sta ovviamente scontando l’oblio riservato alle nostre menti migliori) e imporselo come bussola morale. Si, una guida, un manuale di orientamento nella desolazione diffusa, un puntello per l’italianofobia che coglie ogni cittadino ad intervalli regolari. Non è mica facile sopravvivere in “un paese di giocatori di totocalcio”, in cui l’esistenza “si svolge a vari livelli storici” insieme a gente che magari “vive in pieno medio-evo e agisce non al di fuori della legge, ma senza conoscerla”.
Già, l’Italia, la patria. La “matria”. “[…] Paese di porci e di mascalzoni. Il paese delle mistificazioni alimentari, della fede utilitaria (l’attesa del miracolo a tutti i livelli), della mancanza di senso civico (le città distrutte, la speculazione edilizia portata al limite), della protesta teppistica, un paese di ladri e bagnini (che aspettano l’estate) un paese che vive per le lotterie e per le ferie pagate. Un paese che conserva tutti i suoi escrementi.”
Neanche poi così male, se si considera il fatto che la merda è l’unica certezza che ci sia rimasta. Poi sfogli i giornali, e prima di utilizzarli per quello a cui sono adibiti (cioè lavarsi il didietro, per rimanere in tema), pensi che in fondo, tra mille soprusi, storture ed ingiustizie, l’italiano è “profondamente realista (biologicamente) cioè profondamente naturale. Può apparire vile, è soltanto troppo inserito nella natura. E gli animali assalgono il più debole, i vecchi, quelli che non possono più difendersi. Accettando la realtà crede di fare il suo bene, prolunga invece la sua schiavitù.”
Credere, obbedire, pregare
E’ impressionante leggere il “Diario degli errori”. Ma è puerile analizzarlo, sconsiderato recensirlo. Inutile, perchè memorabile e non scomponibile, pur essendo pensieri sparsi e distesi temporalmente tra gli innumerevoli viaggi di Flaiano. Si può solo ricordare, a memoria appunto. Calembour saettanti, pessimismo comico, aforismi carichi di mezze verità, analisi approssimate e per questo già definite e definitive. Come questa: “A me sembra che nell’ultimo quarto di secolo in Italia non vi sia stato un cambiamento sostanziale. La società si va apparentemente evolvendo verso un tipo di società americana, con la tendenza ad assorbirne più i difetti che i pregi: vedi, per esempio, il cattivo impiego del tempo libero, la scarsa partecipazione ai grossi problemi sociali che vengono strumentalizzati soltanto dai partiti politici […]” E così via.
L’ultimo quarto di secolo, per Flaiano, è quello che va dal dopoguerra ai Settanta. Ebbene, il cambiamento sostanziale non c’è stato neppure nella contemporaneità. O meglio, se cambiamento c’è stato, sicuramente è stato in peggio. “Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la TV” non è una semplice premonizione, è una cantonata (un errore) non prevedibile all’epoca: oggi, infatti, è il governo a fare la televisione, e viceversa, e la televisione gli italiani, e vicecersa. Questa è l’esilarante aporia senza fine in cui vivacchiamo.
“Vorrei soltanto che Dio, o chi ne fa le veci, tenga lontano da questo paese un sistema politico che ci costringa daccapo a credere, a obbedire e a combattere, o a essere “migliori” di quello che siamo; che in altre parole ci conservi la libertà, anche se questa è una parola che fa ridere”. Beh, Dio è da un po’ che si è stufato di questa penisola. Nel frattempo, mentre era in sciopero, ci è crollato sulla testa (approssimativamente da Mani Pulite in poi) un sistema politico che ci chiede – anche se in realtà chiede loro, cioè a chi si rende complice – non di essere “migliori”, ma di essere il più abietti possibile, ci impone di toccare il fondo e di sguazzare nello squallore, il tutto rigorosamente con il sorriso stampato in volto, anche e soprattutto a costo di non riconoscersi più allo specchio.
E alla fine ci ritroviamo tutti quanti, assuefatti ed un pò spaventati, a bivaccare stancamente sulle rovine “in attesa di tempi migliori, che non arrivano mai”, e che probabilmente mai arriveranno. Orgogliosamente e raffinatamente rassegnati, non ci resta che fare come Bartebly lo scrivano: “preferire sempre di no”, rifiutare tutto, a priori e a prescindere.
Coraggio, Ennio. Il meglio è passato.
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