Volevo Invitarlo A Cena
Il libro di Giangiulio Ambrosini (magistrato di Cassazione), “Articolo 416 bis“, è un interessante esperimento letterario. Non solo per la forma – scrittura priva di punteggiatura, ponctuation blanche, fast-reading che si legge in un fiato, graficamente affine ad un componimento poetico – ma anche e soprattutto per il contenuto. Una vicenda che ha come indiscusso punto di riferimento “Davanti alla legge“, celeberrimo racconto kafkiano.
Il concorso eterno
Il titolo del libro prende il nome dall’articolo del codice penale introdotto nel 1982 (legge Rognoni-La Torre), a seguito dell’omicidio del generale Dalla Chiesa. In questo instant book, però, si parla di concorso esterno in associazione di stampo mafioso: forma di incriminazione tutta giurisprudenziale, elaborata teoricamente ai tempi del primo pool antimafia, ottenuta in seguito combinando gli artt. 110 e 416 del codice penale.
Chi è, più precisamente, un concorrente esterno alla mafia? Secondo la sentenza Demitry della Corte di Cassazione (1994, la prima pronuncia organica in materia) è colui che «non vuole far parte dell’associazione e che l’associazione non chiama a “far parte” ma al quale si rivolge sia, ad esempio per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto […] nel momento in cui la “fisiologia” dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato di un esterno».
Ora le maglie giurisprudenziali si solo allargate: non è più necessario, infatti, che l’associazione mafiosa sia in stato di crisi (anche perchè ora come ora le mafie scoppiano di salute). Può esserci un concorso esterno in qualsiasi momento di vita del sodalizio criminale. Tuttavia, la formulazione stessa del reato negli anni è divenuta problematica. Se è vero che un simile strumento può indubbiamente, in astratto, aiutare gli inquirenti a colpire i fiancheggiatori di tutte le mafie, in pratica regge poco al vaglio di un tribunale.
In sedici anni, 7190 persone sono state accusate per questo reato; 2952 le richieste di archiviazione; 1992 i casi in cui è stato chiesto il rinvio a giudizio; 542 sono state invece le sentenze definite. Un pò poco: meno di 15 fiancheggiatori all’anno. Appare a questo punto inevitabile un ripensamento di un istituto che, come ha detto il professor Fiandaca, “oggi più che al processo è utile all’avvio delle indagini”.
Sarò per tutti colpevole / bollato come mafioso
Ambrosini delinea in maniera esemplare l’equivoco di fondo: essendo nel campo del diritto vivente (quindi di natura mutevole, continuamente cangiante) qualsiasi situazione vagamente ambigua può essere trascinata in tribunale. I guardiani della legge fanno molto presto a stritolare tra le braccia repressive dello Stato un cittadino distratto, ignorante ed inerme.
Bastano poche disattenzioni al professore protagonista del libro per essere risucchiato nell’incubo scandito dal ritmo infernale del processo penale: un banale incidente, una strana festa, il sequestro del suo cellulare da parte di un curioso gorilla, una retata della polizia, un intervento non troppo cristallino ad una conferenza, corruzione all’ateneo, la morte di un collega.
Poi c’è l’avvocato personale diffidente, i mormorii dei colleghi, i veleni dell’ambiente di appartenenza (“sarò per tutti colpevole / bollato come mafioso”) alimentati dalla cronica cultura del sospetto, lo smarrimento del protagonista una volta dentro il tribunale, opprimente aula sorda e sbiadita, di fronte ad estranei che devono giudicare sulla sua vita:
Aula maestosa / rivestita di legno / deturpata nella sobria armonia / da una minacciosa gabbia di ferro / entro cui non siede nessuno / il latitante è rimasto tale / banco dei giudici sovrastante / a semicerchio / il presidente più in alto / imponente nella toga nera […] luce fioca dal lampadario centrale / più lampadine spente che accese / tende polverose / vetri incrostati / imputati avvocati pubblico ministero / fronteggiano in banco della corte / seduti davanti a modesti tavoli.
Alla fine l’aporia (non) si risolve – si ricordi che il libro inizia con un banale “volevo invitarlo a cena” – nella rituale formulazione pronunciata dal presidente della Corte: “In nome del popolo italiano”. Una chiusa che suggella perfettamente l’angoscia che si respira incessamente, frenetica e serrata, nello scritto. Non c’è scelta: o si è colpevoli o si è quantomeno attigui, quindi colpevoli, nel paese del rovescio, dell’incertezza del diritto e dello strapotere della ragione criminale elevata a sistema di connivenza sociale.
(Foto: Flickr)
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L'assoluzione di Calogero Mannino e la scomparsa della mafia. Nella Morsa Degli Infedeli - La Privata Repubblica
[…] clima inquisitorio dell’epoca. Ci sono i battaglioni dei pentiti post-stragi, i teoremi sul concorso esterno, le prove diaboliche, le responsabilità accertate che scivolano via come olio sulla superficie […]