La Rivolta Di #Tuzla: Una Possibile ‘Primavera Bosniaca’?
Alla fine del 2013 il giornalista inglese Paul Mason si chiedeva: «Dove inizierà la prossima rivolta?». L’inizio del 2014, almeno in Europa, ha visto la definitiva esplosione dell’Ucraina ed il proseguimento delle proteste in Bulgaria, che ormai hanno superato i 230 giorni consecutivi. A questi due stati dell’Europa dell’Est si è aggiunto un paese balcanico che si riteneva quasi del tutto pacificato: la Bosnia-Erzegovina.
Il 5 febbraio 2014 a Tuzla (città di 120mila abitanti) migliaia di persone – in prevalenza lavoratori e studenti – scendono in piazza per manifestare contro le autorità cantonali e la disastrosa gestione di alcune aziende (la Konjuh, Polihem, Dita e Resod-Gumig), che prima di essere privatizzate e fatte fallire erano la principale fonte di reddito e lavoro per la popolazione locale. I lavoratori, in particolare, chiedono che vengano «pagati loro i contributi previdenziali e pensionistici», e reclamano «condizioni di vita dignitose e posti di lavoro per i giovani».
La privatizzazione della fabbrica Dita – raccontata su East Journal – spiega in maniera piuttosto esemplare dove nasce la rabbia dei lavoratori:
Acquistata nel 2005 dalla società Lora, a sua volta proprietà della Beohemija con sede a Belgrado, la società è andata sistematicamente in fallimento. Gli operai sostengono che, tra il 2009 e il 2010 sia stato dato loro l’ordine di mettere del sale nella miscela chimica utilizzata per produrre detersivi, sale che progressivamente ha danneggiato i macchinari. In seguito al fallimento dell’azienda, a dicembre 2012 quaranta lavorati della DITA hanno iniziato una protesta per tentare di salvare l’azienda, ma invece di indurre uno sciopero della produzione, hanno continuato a farla andare avanti in modo autogestito. Ai lavoratori della DITA sono dovuti più di cinquanta mensilità arretrate e alla maggior parte di loro mancano parecchi anni di servizio per poter andare in pensione, a causa del processo di privatizzazione che si è trascinato dal 2002.
La protesta del 5 febbraio è organizzata dai sindacati delle aziende di Tuzla e dal gruppo Facebook 50.000 za bolje sutra («50.000 persone per un domani migliore»). Si tratta, come sottolinea sempre East Journal, di una mobilitazione ad «alto valore simbolico» poiché rappresenta «il primo tentativo di organizzare una protesta unitaria dei lavoratori nella Bosnia del dopoguerra». Sullo sfondo, naturalmente, rimangono i nodi irrisolti del post-Dayton, la stasi politica pressoché totale e il tasso di disoccupazione spaventosamente alto – il 27.5% in quella generale, e più del 60% in quella giovanile.
La protesta prende una piega violenta con il tentato assedio all’edificio del governo cantonale, scatenato dal rifiuto del primo ministro di incontrare una delegazione di lavoratori. La polizia carica i manifestanti, che rispondono con fitte sassaiole e il blocco delle strade principali del centro tramite cassonetti e pneumatici in fiamme. Gli agenti in assetto antisommossa usano più volte i lacrimogeni per disperdere la folla. Il bilancio della giornata è pesante: 23 feriti (tra cui un giornalista) e 27 arrestati.
Il giorno dopo la mobilitazione non solo non si ferma, ma si allarga e coinvolge altre città – tra cui Sarajevo, la capitale bosniaca. Il centro della protesta rimane comunque Tuzla, dove convergono in piazza più di 6000 persone. Una manifestante esplica le sue ragioni a Balkan Insight: «La gente ha fame e non ha da mangiare, i giovani non hanno lavoro, non c’è assistenza sanitaria, siamo senza i più elementari diritti. Peggio di così non può andare». Un altro manifestante invita tutti quanti a «scendere in piazza, perché il Titanic sta per affondare».
Gli ex dipendenti della DITA posano fiori e accendono candele davanti all’edificio governativo. Mentre salgono i cori della folla («ladri, ladri!») qualche manifestante comincia a tirare pietre e uova alla sede del governo cantonale. Qualcuno riesce a impossessarsi del vessillo del cantone di Tuzla e lo brucia. La polizia risponde con cariche e lanci di lacrimogeni.
Qualche solerte agente non perde l’occasione di gassare i manifestanti con lo spray urticante.
Gli scontri continuano anche in serata. La polizia dichiara che in tutta la città si stanno verificando episodi di saccheggio; un giornalista di Al Jazeera Balkans, tuttavia, smentisce la versione delle forze dell’ordine twittando foto di negozi intatti. Secondo Balkan Insight, anche la seconda giornata di protesta finisce con un bilancio piuttosto pesante: i feriti sarebbero 70, di cui 50 poliziotti.
Insomma, siamo di fronte a una «Primavera Bosniaca», come l’ha definita un manifestante? È ancora troppo presto per dirlo.
La rivolta di Tuzla potrebbe comunque segnare un punto di svolta per l’intera Bosnia-Erzegovina. Negli anni scorsi (soprattutto nel 2013) le proteste sociali non sono mancate, ma rarissimamente sono finite con scontri violenti. Anzi, proprio la mancanza di «un legame tra le diverse esplosioni di malcontento e rabbia» aveva evidenziato il permanere di divisioni interne alla società – divisioni alimentate ad arte dalla classe politica del paese per nascondere la drammatica situazione economica.
Quello che i lavoratori di Tuzla stanno dimostrando è che, per usare le parole di Emin Eminagic
i bisogni collettivi non conoscono differenze etniche né confessionali, e che la loro protesta è un campanello di allarme per tutti coloro che ogni giorno soffrono l’ingiustizia delle élite politiche. Questa lotta, pertanto, non può essere chiamata “mia”, “tua”, “loro”, ma è la lotta di tutti noi, perché siamo tutti sulla stessa barca.
Del resto, come diceva Mason nel suo pezzo sul Guardian, «quello che appare come l’ordine sociale è solamente la superficie di un disagio molto profondo». E il disagio covato nella difficile e controversa ricostruzione post-bellica sembra sul punto di invadere la fragile superficie della Bosnia.
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