Scivoleremo Sulla Superficie Delle Cose
(Foto di Erwin Olaf)
Fin dalla pubblicazione di “Meno di zero” (1985) Bret Easton Ellis è sempre stato massacrato dalla critica americana (e non). Le accuse: sa solo scrivere di adolescenti sociopatici, drogati e dai perversi gusti sessuali; è un maniaco misogino e misantropo (notevole il drama scatenato da alcune femministe all’uscita di “American Psycho”, capolavoro spietato sull’edonismo reaganiano); non sa scrivere; non scrive più come una volta (sull’ultimo libro, “Lunar Park”); fa cose, vede gente.
Ma l’opera più fraintesa in assoluto1 (e dunque la più riuscita) è stata “Glamorama” (1999), disperata allegoria satirica sulla spersonalizzazione alienante della celebrità ricercata ad ogni costo e sulla società dei consumi che sta ormai esalando i suoi ultimi rantoli.
Hip to be square
Il romanzo si svolge nella seconda metà degli anni Novanta, e segue le vicissitudini dell’IT Boy (Ragazzo Oggetto) del momento, Victor Ward (personaggio già inserito nell’universo ellisiano in “Le regole dell’attrazione”), modello semi-famoso che schizza da una festa newyorkese all’altra in sella alla sua Vespa, tra dialoghi patetici, privi di ogni significato, ripetitivi fino alla nausea, in più punti demenziali, tra i respiri affannosi dello star system, tra le miriadi di nomi (famosi e non) sparati in serratissime sequenze, tra marche e attrici e modelle sull’orlo del collasso, tra cocktail e party, tra droghe e vacui amplessi.
L’atmosfera di Glamorama – volendolo catalogare, potrebbe essere inscritto nel filone del Bildungsroman – è frenetica e confusionaria sin dallo sproloquio iniziale del protagonista, che in un certo senso racchiude tutta la storia:
Puntini2 – sul terzo pannello ci sono puntini dappertutto, non vedete? – no, non quello, il secondo dal basso, ieri volevo farli notare a qualcuno ma poi c’era un servizio fotografico e Yaki Nakamari o come cazzo si chiama il designer – si fa per dire – mi ha scambiato per qualcun altro e così non sono riuscito a farmi sentire, ma ragazzi – e ragazze – eccoli: irritanti, minuscoli puntini che non sembrano lì per caso ma fatti da qualche macchina – quindi niente stronzate, solo la storia nuda e cruda, senza fronzoli, solo i fatti: chi, che cosa, dove quando e non dimentichiamo il perché, anche se a giudicare dalle vostre brutte facce ho la netta impressione che il perché non avrà risposta – dunque, allora, si può sapere che cosa succede?
Le cinque W del giornalismo anglossasone citate a sproposito (ma neanche troppo) da Victor sono le fila di una trama che si aggroviglia e che deraglia dopo circa duecento pagine, risucchiata in complotti concentrici che non trovano mai una soluzione, perpetrandosi continuamente. A New York, infatti, il protagonista viene avvicinato dal misterioso Fred. F. Palakon per una missione: ritrovare una vecchia fiamma, sperdutasi in Europa. Nel vecchio continente Victor, perennemente imbottito di droga, si trova involontariamente coinvolto nelle trame di una cellula terroristica di “alta moda” – nel senso che essa è composta esclusivamente da modelli – il cui fine non è mai del tutto chiarito: il perchè non avrà mai una risposta. I fatti non saranno mai limpidi, ma appena accennati e mai conoscibili fino in fondo.
We’ll slide down the surface of things
Il tema ricorrente di Glamorama è lo svuotamento della realtà. A partire dai nomi: mentre in American Psycho i personaggi non riuscivano a collegare la fisiognomia al nome della persona, in Glamorama è l’accumulazione indiscriminata, inframezzata dalle marche di moda, ad annientarne la valenza semantica – anch’essi diventano dei semplici oggetti, gusci vuoti da enumerare alla rinfusa.
Stesso discorso vale per le canzoni. Quando non sono inserite nei dialoghi o non fanno da sottofondo alle varie feste glamour e hip del romanzo, esse sono citate dal protagonista in esilaranti risposte a domande di “cultura” musicale: titolo, artista, durata, anno e casa discografica. Così facendo, Victor Ward priva del valore artistico la musica, derubricandola ad un mero oggetto commerciale, perfetto paradigma del capitalismo consumista.
Anche il corpo umano non ha alcuna valenza. Le torture e gli smembramenti vari non sono mai del tutto credibili (v’è da ricordare che il protagonista è sempre seguito da una troupe cinematografica3 e che molto spesso Victor Ward dice di dover imparare un copione il cui contenuto non è mai esplicitato); le parti anatomiche sono sempre rimpiazzabili e modificabili, così come lo sono quelle dei manichini – cioè dei top model, esseri umani fasulli, costruiti a tavolino, sempre soggetti al cambiamento costante dell’industria e dei “gusti” della società.
In is out; Out is in
Un altro grande tema del romanzo è il terrorismo (due anni prima dell’11 settembre, ormai divenuto dies a quo del terrore internazionale). Una piccola digressione appare oppurtuna: per terrorismo4 si intende con buona approssimazione l’atto criminoso che ha rilevanza politica internazionale e che è rivolto a produrre effetti di intimidazione interna ed esterna. Il fine è dunque eminentemente di lotta politica; lo scopo principale delle azioni terroristiche è quello di modificare o disintegrare lo status quo mediante la risonanza mediatica e lo sfruttamento dei canali massmediali – il medium è il messaggio.
Ebbene, in Glamorama persino il terrorismo è privato della sua essenza, del suo nucleo semiotico. Non sappiamo mai in base a quale movente agisca la cellula; nè viene spiegata la scelta degli obiettivi, la struttura di comando e, soprattutto, se le bombe disseminate per mezzo mondo siano vere o fasulle. Del resto, lo stato di totale incoscienza in cui versa Victor (il libro è scritto tutto in prima persona) di certo non aiuta a dissipare i dubbi – misteri che l’autore intenzionalmente lascia insoluti, probabilmente aderendo al dettato lynchano per cui il mistero è affascinante solamente se rimane in re ipsa.
I puntini menzionati nella prima pagina si ricompongono e si uniscono (formando la figura generale del libro e, forse, dell’ethos degli anni Novanta) solamente nel meraviglioso finale del libro. Victor è giunto al termine della sua avventura picaresque e si trova in un hotel a Milano, sostituito da un doppelgänger (per davvero o per finta?) negli Stati Uniti, completamente assorto nella contemplazione della montagna di uno strano quadro – simbolo che sta ad indicare l’ascensione fuori tempo massimo alla conoscenza, la catarsi inutile, la redenzione superflua. Il tutto dopo aver perso completamente la sua parvenza di identità, dopo essere stato utilizzato per conto di terzi mai identificati ed identificabili, dopo essere scivolato sulla superficie delle cose per seicento pagine e per un intero decennio di nulla totale ed ineludibile.
- Un esempio su tutti: un critico del New York Times (a proposito di massacratori) ha definito il romanzo “a bloated, stultifyingly repetitive, overhyped book” – un’involontaria conferma del valore dell’opera. [↩]
- Ci troviamo di fronte ad una chiara citazione di “Underworld” di Don Delillo. Del resto lo stesso Ellis, in un’intervista, ha detto di aver scritto il libro con la testa perennemente rivolta al grande scrittore americano. [↩]
- Nitida allegoria della sovrapposizione e confusione tra finzione e realtà: due piani distinti e separati che spesso, nel libro e nella realtà stessa, trovano una perfetta ed inesplicabile convergenza. [↩]
- E’ bene ricordare che in sede internazionale non esiste ancora una definizione univoca di terrorismo – per motivi che appaiono sicuramente politici e non giudirici. [↩]
#1
Franca straface
Vorrei vivere in un’Italia piu’ consapevole e affidabile,meno losca e truffaldina.Siamo stanchi e sfiduciati.E tutto cio’ non va bene vogliamo , vogliamo un futuro accettabile.