Passaggio Di Tempo
(Appunto 59, “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini)
Dal Maggio del ’72 all’Ottobre di quell’anno, non successe niente di ciò che era previsto addirittura come un Evento. Il Msi ebbe molti voti alle elezioni: ebbe addirittura un grande successo, come il lettore sa meglio di me. I socialisti uscirono dal Governo che si spostò a destra, con i Liberali, e capo del Governo fu Andreotti. I vecchi clerico-fascisti rialzarono la cresta, e un clima di restaurazione soffiò come uno scirocco sull’Italia. Ma tutto, almeno per ora, si limitò a questo. Che era una cosa vecchia. La realtà, andando avanti per conto suo, come volevano le sue leggi reali, trasformava gli italiani attraverso nuovi fenomeni di permissività: certe acquisizioni, che, coi socialisti al Governo, si chiamavano Riforme, erano divenute ormai irreversibili. L’Italia era avviata verso l’Edonismo del Consumo – se il lettore mi permette questa frettolosa definizione – il cui tempio non era certo la Chiesa. Un fascista edonista era una contraddizione in termini. Il Potere era preso nell’impasse di questa contraddizione. Che direzione avrebbe imposto la sua Mente, calandosi, nella fattispecie, nel Capo del Governo Andreotti? Una più decisa svolta a destra – come in superficie dimostrava il revival moralistico dei vecchi agonizzanti clerico-fascisti alla Magistratura, della Polizia ecc.? Oppure una più reale svolta a destra, lungo le strade della democrazia tollerante?
Il potere è eternamente giovane, duttile, spesso dubbioso e in crisi, come ogni cosa umana. Ora i suoi lemmi erano in discussione.
L’opposizione si era riordinata, e aveva ritrovato una certa unità tradizionale fondata su quella idea retorica del Potere inteso tradzionalmente come ‘vecchio, idiota, ottuso, senza dilemmi’. Il gauchismo aveva perduto le sue masse, perchè sottocultura di protesta contro sottocultura di potere è un’antitesi che non può non finire con la sconfitta della prima. Le masse dei giovani erano rientrate enigmaticamente nell’ordine, pur conservando visibilmente i segni traumatici della rivolta di qualche anno prima. La cosa però si era rivoltata contro di loro. La condanna totale e intransigente che avevano pronunciato senza discriminazione contro tutti i padri, aveva impedito loro di avere con quei padri un rapporto dialettico, attraverso cui superarli, andare avanti. Il rifiuto puro è arido e malvagio. E così, attraverso il rifiuto, i giovani si trovarono fermi nella storia. Ciò che implicò, fatalmente, un regresso. Su loro ricomparvero i caratteri psicologici e corporali di una vecchia borghesia infelice: segni che, almeno in minima parte, nei loro padri erano scomparsi: si rividero facce di vecchi preti, di avvocatucci colpevoli, di giudici vuoti, di sergenti corrotti, ecc. ecc.: questo nei più indifesi di quei giovani, naturalmente. Nella ‘massa’ altro non c’era che la scontentezza, nevrosi, ignoranza, aggressività: l’integrazione non pagava il tradimento.
L’avvicinamento della periferia al centro, della provincia alle capitali, aveva intanto distrutto anche le varie, particolari culture popolari. La periferia di Roma o le terre povere del Meridione, le piccole città tradizionali e le regioni contadine del Nord, non producevano più modelli umani propri, nati appunto dalle loro vecchie culture; modelli umani da opporre a quelli offerti dal centro, come forme di resistenza e di libertà – anche se vecchie e povere. Il modello ormai era unico: era quello che il centro, attraverso la stampa e la televisione, mollemente imponeva. E poichè era un modello piccolo-borghese, l’immensa quantità di giovani poveri che cercavano di adeguarvisi, ne erano frustrati. Non c’era più orgoglio popolare, alternativo. Anzi, le mille lire di più che il benessere aveva infilato nelle saccocce dei giovani proletari, avevano reso quei giovani proletari sciocchi, presuntuosi, vanitosi, cattivi. E’ solo nella povertà che si manifesta sia pure illusoriamente la bontà dell’uomo. Non c’era giovane del popolo, che ormai non avesse impresso nel viso un ghigno di autosufficienza, che non guardasse più negli occhi nessuno, o non camminasse con gli occhi bassi, come un’educanda, a manifestare dignità, riservatezza e moralità. Non c’era più curiosità per niente. tutto era già obbligatoriamente noto. C’era solo l’ansia nervosa – che rendeva brutti e pallidi – di consumare la propria fetta di torta. A questo si aggiungevano i capelli lunghi, o meglio i capelli acconciati come su laide maschere, con tiraggi, codine, frangette, ciuffi arrotolati: una deformazione incontenibile, che si presentava come un risultato raggiunto attraverso ineffabili sforzi, e che sostituiva addirittura la parola. Vecchie puttane, sgualdrinelle degli Anni Venti, oppure Santoni senza pensiero, i ragazzi del popolo imitavano gli studenti in questa mascherata che faceva trascorrere loro gli anni più belli della vita come buffoni, vergognosi dello splendore imberbe della pelle, schiacciata dai vecchi ciuffi fieri e innocenti, dalle virili e umili nuche tosate dei tempi della Povertà.
Degli uomini colti non ci fu uno che avesse il coraggio di alzare la voce per protestare contro tutto questo. Il rischio dell’impopolarità faceva più paura del vecchio rischio della verità. Del resto anche la cultura specializzata era degna del suo tempo: ormai la sua organizzazione interna era definitivamente pragmatica: i prodotti intellettuali erano prodotti come gli altri: si definivano attraverso il successo o l’insuccesso, e la loro euristica era nel loro esserci, come cose o fatti: scommesse perse o vinte. La malafede era ideologizzata come elemento del modo di essere colti o addirittura poeti. Dei ‘Gruppi’ – anch’essi psicologicamente e corporalmente simili a una borghesia che pareva finita per sempre – facevano del ‘potere letterario’ il loro fine dichiarato e diretto, non solo senza pudore, ma addirittura gestendo contemporaneamente una funzione moralistica, terroristica e ricattatrice, desunta, con inaudita sfacciataggine, dal gauchismo pateticamente sconfitto.
L’unica realtà che pulsava col ritmo e l’affanno della verità era quella – spietata – della produzione, della difesa della moneta, della manutenzione delle vecchie istituzioni ancora essenziali al nuovo potere e non erano certamente le scuole, né gli ospedali, né le chiese.
#1
Silvano
Esisteva invidia e voglia di soppiantarlo!
Enrico Mattei non ha accumulato capitali per la sua famiglia oppure per il suo partito oppure per i suoi amici! Era nato povero e povero era quando è stato ucciso! Per dare una pensione a sua moglie si è dovuto fare l’impossibile!
Questo fatto la dice lunga sul suo essere uomo sensibilissimo ai bisogni degli altri, sacrificando ogni slancio egoistico! Dell’appellativo di “corruttore-incorruttibile” lui stesso ne parlava quasi fosse una giustificazione per dimostrare quanto difficoltosa ed incompresa era la strada da percorrere nel raggiungere quegli obiettivi relativi allo sviluppo energetico italiano, pur a tutti evidenti e sicuramente ritenuti estremamente positivi negli anni della ricostruzione post bellica!
Il poco tempo trascorso dalla sua scomparsa ha già cancellato la sua figura, come se la morte debba essere attribuita ad una sua colpa!
Invece Enrico Mattei ha versato lacrime, nell’ultimo periodo vissuto, a causa delle minacce ricevute! Sicuramente egli era coinvolgente e determinato nel perseguire risultati altruistici, il bene comune, la liberazione atavica dalla miseria nazionale!
Questo apparentemente facile successo, raggiunto da un personaggio semplicissimo come era Enrico, suscitava invidia, spirito di emulazione ma anche voglia di soppiantarlo! E così è stato!