L’Ultima Squadra Serba

Pubblicato da Tamas il 13.10.2010

“Gesù ha detto di porgere l’altra guancia se ti colpiscono una volta, ma non ha detto cosa fare quando ti colpiscono due volte.” – Zvonimir Boban

Il 13 maggio 1990 il mondo si accorse da una partita di calcio che qualcosa non andava in Jugoslavia1. Le immagini ce le ricordiamo tutti: gli slogan lugubri, gli scontri sugli spalti e in campo, gli stessi giocatori coinvolti nelle risse. L’icona di quella partita resta la corsa di Zvonimir Boban verso un poliziotto, il suo calcio, l’agente (un musulmano di Bosnia) che cade a terra. Boban pagò quel gesto di rabbia e frustrazione con la mancata convocazione ai mondiali del 1990: ma la sua impressione, e quella di tanti, fu quella di un giorno di festa per il nazionalismo serbo, capace di portare la propria legge e la propria violenza nel cuore del nemico.

Intendiamoci, gli altri non erano e non sono mai stati agnellini: già allora si riabilitavano in Croazia i simboli dei criminali di guerra e dei genocidi della Seconda Guerra Mondiale, e anche chi li portava2; già allora le varie repubbliche cominciavano a lucidare il proprio diritto costituzionale di secessione, in sfida aperta alle minoranze serbe sparse su tutto il territorio della Federazione.

La Jugoslavia non avrebbe retto a lungo, lo si sapeva: ma nel fiero discorso di Milošević a Kosovo Polije, e più ancora nella propria bellicosa gioventù che stavolta non si sarebbe fatta prendere di sorpresa, i serbi vedevano la sicurezza che se si fosse arrivati al conteggio delle proprie ragioni, loro, i più numerosi e quelli maggiormente sacrificati dalla Jugoslavia, avrebbero prevalso, e che nessun serbo sarebbe stato lasciato solo dai propri fratelli. La paura e la rabbia di Boban, che erano la paura e la rabbia di molti in Jugoslavia, sembravano avvalorare questa tesi.

Sono passati vent’anni da allora, con svariate guerre sul territorio jugoslavo: i conflitti, cominciati in Slovenia con una mezza farsa, poi divenuti un incendio in Croazia e Bosnia, sono infine arrivati al cuore stesso della Serbia, con la guerra del Kosovo, quella decisa nel 1999 dalla Nato per difendere dalla pulizia etnica e dall’annientamento la parte albanese, largamente maggioritaria, della popolazione della provincia serba. Ogni conflitto ha segnato l’arretramento degli obiettivi serbi e la rinuncia ad una parte di popolazione e di territorio; la guerra nel Kosovo, e i dieci anni successivi fatti di chiese e monasteri bruciati per cancellare dalla terra quello che la definiva serba, hanno infine mutilato il corpo stesso della nazione serba. La separazione dal Montenegro, nel 2006, ha invece sancito l’allontanamento di quel piccolo stato guerriero, fiero e (quasi) mai vinto, che è stata la culla della Serbia assetata di giustizia e di rivincita3. Dal Montenegro, sorta di Sparta dei serbi, tutto era partito; senza il Montenegro, tutto è parso concludersi.

Ieri sera, vent’anni dopo Zagabria, si è giocata un’altra partita, e di nuovo i teppisti serbi ne sono stati protagonisti. Ancora una volta, la loro violenza, annunciata nei giorni corsi a Belgrado dagli assalti al Gay Pride e agli uffici governativi, ha coperto e cancellato il gioco. Si tratta d’altronde degli stessi ultras (“Grobari” o “Delije”) o di appartenenti a quelle sigle neofasciste (1389, Obraz) che traggono ossigeno dall’umiliazione della Serbia e dalla perdita del Kosovo.

Solo che stavolta quella violenza somigliava al calcio di Boban. La Serbia di oggi non fa paura a nessuno: la sua rabbia non è che frustrazione e richiamo infantile, e per questo balcanico (in quanto tale mai cresciuto), ad una “giustizia” che, nei rapporti tra nazioni, non è mai esistita. “Il Kosovo è Serbia”, hanno scritto quegli ingenui vandali in uno stadio italiano, in quel Paese che ha gettato bombe su di loro ma che ora si indigna se vengono infrante alcune vetrate, e per questo li chiama incivili. Ma il Kosovo è stato Serbia, come Zagabria era Serbia venti anni fa, come Vukovar e Sarajevo dovevano diventare Serbia per riunire un popolo disperso. Quello che vent’anni fa era il rumore di una nazione in marcia, oggi è la difesa rabbiosa e perdente di una retroguardia di sconfitti.

La Serbia, tante volte tacciata di vittimismo e di coltivare la retorica della sconfitta, è di nuovo inchiodata dal mondo alla perdita del suo Kosovo4; la cosa pare ironica, ma nei Balcani, anche quando si ride, non c’è mai molto da scherzare.

  1. A tal proposito, l’ottimo documentario “The Last Yugoslavian Football Team” ripercorre la dissoluzione della Jugoslavia attraverso il calcio. []
  2. Riapparve ad esempio in quei giorni sulle bandiere croate l’antico scudo a quadri biancorossi, utilizzato per l’ultima volta durante la seconda guerra mondiale. []
  3. Non a caso, erano montenegrini, d’origine o in tutto e per tutto, Arkan, Karadžić, Milošević. []
  4. Dove tutto è iniziato. []

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Drop the Hate / Commenti (3)

#1

cielosopramilano
Rilasciato il 13.10.10

tutto assolutamente condivisibile.

#2

inaudita altera parte
Rilasciato il 16.10.10

Il tuo articolo migliore.

#3

blicero
Rilasciato il 16.10.10

Infatti non è mio.

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