La Zona
Un grosso suv nero si muove placidamente tra le strade di un elegante quartiere residenziale. Ci sono le villette a due piani dai colori tenui e gradevoli, i giardini curati e innaffiati, la scolaresca che attraversa la strada e la famiglia felice che si prepara per un viaggio, probabilmente nella seconda o terza casa in qualche isola tropicale con 40° all’ombra – per tutto l’anno. Tutto perfetto. Tutto recintato da mura, filo spinato e telecamere di sorveglianza.
Fuori dalla Zona. Una sterminata distesa di case abusive è ammassata disordinatamente nella spianata della Città, un agglomerato che si mangia con la sua fatiscenza grigio-smog i bordi della montagna sovrastante. Qui niente suv, niente prati curati, nessuna famiglia felice: al massimo pick-up neri che pompano a tutto volume le narcorridos che esaltano le gesta dei capos, cartelli di trafficanti formati da poliziotti, corruzione soffocante e strade lastricate di cadaveri. La vita vale poco o niente, da queste parti.
Opera prima di Rodrigo Plà, “La Zona” parte da questa dicotomia sempre più insostenibile per cercare di dissezionare il corpo sociale di un Messico (sebbene nel film non ci siano riferimenti geografici espliciti) pericolosamente prossimo alla guerra civile.
Another wall in the wall
Nel 1967 il sociologo urbano Robert Park ha scritto che la città è
il tentativo più riuscito dell’uomo di rifare il mondo in cui vive, seguendo il desiderio del suo cuore. Ma se la città è il mondo che l’uomo ha creato, è anche il mondo nel quale è condannato a vivere di conseguenza. Pertanto, indirettamente, e senza un chiaro senso della natura del suo compito, nel costruire la città l’uomo ha ricostruito sé stesso.
La Zona, nel film, è il mondo dotato di statuto giuridico autonomo1 in cui un gruppo di facoltosi abitanti ha deciso di rinchiudersi per sfuggire alle loro paure e per proteggersi dalle insidie provenienti dal mondo “esterno”, sporco, caotico e criminale.
Tuttavia, il confine tra quello che c’è “dentro” e quello che c’è “fuori” è estremamente poroso, pronto a sgretolarsi non appena tre giovanissimi malviventi di strada, grazie ad una circostanza fortuita, fanno breccia nel muro. La rapina va a finire male: due ladri finiscono uccisi, mentre il terzo riesce a scappare. Inizia così una rabbiosa caccia all’uomo, mentre sullo sfondo si intrecciano i tentativi della polizia di far luce sulla vicenda, quelli degli abitanti della Zona per depistare le indagini e farsi giustizia da soli, la storia personale dell’adolescente privilegiato Alejandro (figlio di uno dei capi della Zona) ed il suo rapporto ad alto rischio con Miguel (il ladro ricercato) – in definitiva, la trama si risolve nella disperata pretesa di dare un senso alla lotta quotidiana per un’esistenza che si svolge su piani tra loro sempre più divergenti.
Non è un caso, infatti, che il film sia ambientato in Messico, un paese che è in grado di combinare miliardari come Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo il cui patrimonio è stimato intorno al Pil di un paio di stati africani (60 miliardi di dollari), con fasce di popolazione che a malapena mangiano e che per sfuggire dall’orrore dei barrios metropolitani si riducono a sniffare colla, dato che non hanno i soldi nemmeno per la droga.
La pellicola di Plà prescinde, in un certo senso, dal suo paese natale: più che la denuncia di un unicum sudamericano, si tratta di una potente riflessione che coinvolge l’intero occidente – o quello che questo può diventare se non si riesce a cauterizzare la sempre più devastante frattura sociale. Una frattura sociale che coinvolge direttamente l’ambito spaziale delle città in cui viviamo, del mondo che abbiamo scelto, o che hanno scelto per noi, quello in cui ci siamo ritrovati ad abitare.
Frammenti fortificati, comunità recintate e spazi pubblici privatizzati passati al setaccio 24/7 da telecamere silenziose & implacabili. Negli ultimi 30 anni la città si è progressivamente atomizzata in piccole entità separate: da una parte quartieri benestanti provvisti di tutti i tipi di servizi, tra cui scuole esclusive, campi da golf e polizia privata: dall’altra accampamenti illegali di lamiera, polvere e microcriminalità dove l’acqua è un lusso, l’igiene un miraggio e dove le strade si trasformano in paludi ogni volta che piove. Ogni segmento urbano vive e funziona in maniera autonoma e sconnessa, in una sfera di fittizia intoccabilità che non può essere contaminata dal contatto con l’altro, pena l’abbattimento di tutte quelle barriere socioeconomiche che, in fondo, ci proteggono da quello che siamo – e noi siamo ciò che facciamo finta di essere, diceva Kurt Vonnegut, per questo dovremmo porre più attenzione in ciò che facciamo finta di essere.
Un grosso suv nero si muove placidamente tra le strade di un elegante quartiere residenziale2. Ci sono le villette a due piani dai colori tenui e gradevoli, i giardini curati e innaffiati, la scolaresca che attraversa la strada e la famiglia felice che si prepara per un viaggio, probabilmente nella seconda o terza casa in qualche isola tropicale con 40° all’ombra – per tutto l’anno.
Tutto così uguale all’inizio del film. Tutto così diverso, ora.
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