La Battaglia Di Keratea
La Fin, 14-18/04/2011
Il 14 aprile la troupe televisiva arriva di buon’ora al bloko. Dal van scende una giornalista con i capelli biondi, seguita dai cameramen. La donna si dirige verso la trincea (1.70 metri di profondità) scavata nell’autostrada, ci entra e comincia a parlare. “Sembra di essere in un film…Ma com’è possibile che in un’area occupata dalla polizia sin da dicembre nessuno si sia accorto di quello che stava succedendo?” Già, com’è possibile? L’Inglese sente quelle parole da lontano. Era arrivato a Keratea nel 1973, l’ultimo anno della junta, ed era rimasto stregato da quelle case bianche e basse, da quei monti ritagliati nel cielo e da quella bellezza paesaggistica ottundente. Si era trasferito lì insieme alla moglie. Dopo lo show a beneficio della televisione, le sirene avevano ripreso ad urlare – l’ouverture dell’ennesimo, sfiancante rituale di lotta. Il sangue gli si era raggelato.
Tutti avevano letto le dichiarazioni del sindacato di polizia e l’insofferenza montante degli Eftihis: nessuno si aspettava che attaccassero ancora. Eppure, senza alcuna provocazione, i fucili dei poliziotti avevano iniziato a vomitare lacrimogeni su lacrimogeni. Le prime linee si erano riempite non soltanto di giovani, ma anche di vecchi e donne – ormai dei Professionisti dell’Insurrezione a tutti gli effetti. La battaglia era stata lunga, ruvida, selvaggia. Gli ufficiali di più alto grado del MAT avevano fatto girare la giostra un’ultima volta, a velocità folle, e poi con una mazza avevano spaccato il pannello dei controlli, in modo da poter dire di non essere più in grado di gestirla. In tutti questi mesi, una frase attribuibile al nazionalista irlandese del XIX secolo William O’Brien aveva tormentato l’Inglese: “A volte la violenza è l’unico modo per essere sicuri che la moderazione sia ascoltata”.
Aveva fatto sessioni e sessioni di soul searching sulla violenza e sul suo significato recondito. Lui era semplicemente un professore di una certa età che aveva sempre creduto fermamente nella non-violenza. Non aveva mai avuto alcuna aspirazione a diventare un ribelle, una testa calda, un guerrigliero. Ma si sentiva costantemente sul punto di commettere qualche reato. Si sentiva sempre più giustificato sul piano morale a tirare molotov (che comunque non aveva mai lanciato). A Keratea lo Stato di diritto era stato pugnalato alle spalle, e il suo cadavere gettato in un torbido torrente di illegalità e sopraffazione. Finiti i rimedi legali, non rimaneva che una via per uscirne. Quando il 18 aprile l’ultima corriere stracolma di poliziotti del MAT era partita, tutta la città era giubilante. La battaglia era finita, e non aveva mietuto vittime solo per puro caso – un generoso ed inaspettato regalo del destino. E nonostante questo, nonostante i festeggiamenti, l’Inglese, immobile sul divano di casa, non riusciva a rimuovere l’angosciante dilemma che gli si era conficcato in testa: era una vittoria o una sconfitta?
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Dopo la lunga parentesi “militare”, tornare a mettersi attorno ad un tavolo per discutere è stata l’unica cosa sensata da fare. Le comunità interessate dalla costruzione della discarica hanno formulato diverse proposte per la risoluzione della controversia, e tutte queste proposte si sono mosse nella direzione di un cambiamento radicale nella politica di gestione dei rifiuti: basta discariche, cerchiamo altri modi di smaltire i rifiuti – o meglio ancora, qualsiasi altro modo che non sia ammassare/concentrare l’immondizia in un solo posto.
Tuttavia, all’orizzonte politico non si scorge alcun cambiamento di mentalità. Anzi. Per il governo la costruzione della discarica rimane prioritaria. Certo, dietro questa ottusa ostinazione potrebbero esserci i variegati interessi in gioco, uno scarto culturale troppo ampio, il diaploki inestirpabile tra Bobolas e i suoi referenti istituzionali. Ma la realtà è indiscutibilmente più prosaica: la Grecia rischia di sprofondare non solo sotto il peso dei suoi debiti, ma soprattutto sotto quello della sua spazzatura. Quella discarica deve essere fatta, costi quel che costi. Ed infatti, invece di esaminare seriamente i progetti, il PASOK sta portando avanti una strisciante politica di divide et impera, cambiando costantemente il sito di costruzione e seminando zizzania tra i comuni limitrofi per spezzare quell’unità che aveva trasformato la placida Keratea una formidabile sacca di resistenza civile. Ad ogni modo, Kostas e Yiorgos non hanno dubbi. “Se tornano, noi siamo pronti. Solo che il livello dello scontro non partirà da dov’era a dicembre. Partirà da dove è rimasto ad aprile”.
Nel documentarmi, mi sono subito reso conto che l’intera vicenda non poteva essere confinata all’Attica. Trascendeva la contingenza politica greca. Spaccava la gabbia nazionale in cui i media l’avevano rinchiusa. Il suo perimetro si allargava a dismisura e arrivava a ricomprendere tutta l’Europa. Era qualcosa di più grosso dell’insurrezione di un paesino di 15mila abitanti. A ben vedere, la battaglia di Keratea non è iniziata con gli scontri di fine 2010. E nemmeno con la legge sul ciclo dei rifiuti del 2003. E neanche con il progetto del 1996 del Politecnico di Atene. No. È iniziata molto prima. È iniziata in Germania, più di vent’anni fa.
Negli anni ’80, il governo federale della Baviera decise di costruire una centrale per il riprocessamento del combustibile nucleare a Wackersdorf, una piccola cittadina di 5.000 abitanti situata nella parte orientale del Land – un territorio contraddistinto da un’alta percentuale di disoccupazione e da redditi bassi. La convinzione delle autorità: quando le persone non hanno molte alternative sono disposte ad accettare di tutto, senza fiatare. Non serve nemmeno consultarle. L’errore fu madornale, l’arroganza sconfinata. Quando i primi alberi cominciarono a cadere nel dicembre del 1985 per far posto al cantiere, gli abitanti invasero la foresta e la protesta divenne massiccia, attirando anarchici da tutta la Germania e anche cittadini austriaci. Il recinto d’acciaio e filo spinato costruito attorno al cantiere si tramutò nel teatro di sanguinosi scontri tra manifestanti e polizia, in cui persero la vita tre persone. Nel 1988, dopo un numero incalcolabile di manifestazioni e disordini violenti, il progetto venne definitivamente abbandonato1.
Keratea è Terzigno. Keratea è la Val di Susa. Keratea è Stoccarda 21. Keratea è la democrazia europea scarnificata dai volenterosi carnefici di un malinteso Progresso che fagocita ogni cosa e spolpata dagli avvoltoi del Decisionismo fine a se stesso. I governanti e la maggior parte della stampa greca hanno sbrigativamente bollato Keratea come un modello deleterio, malsano, il punto di non ritorno della protesta, un salto nel buio nella Terra Del Fa’ Come Ti Pare, in cui tutto è illecito e quindi tutto è permesso. E sempre i governanti/la stampa non hanno fatto altro che ripetere che le rivolte sono il “sintomo” di qualcosa orribilmente sbagliato. È vero. Ma le rivolte stile-Keratea sono anche gli ultimi scampoli di sanità mentale in un mondo dove è la “normalità” – occasionalmente interrotta da queste esplosioni “irrazionali” di violenza – ad essere il vero problema.
- Wackersdorf è diventato un caso di scuola per tutti i movimenti ecologisti. Un esempio di quanto possa essere forte la società civile, se unita. Una storia di successo che ora è celebrata nel centro di Salisburgo, in Austria, dove nel 2000 è stato eretto a Mozartplatz un memoriale dedicato a tutti gli austriaci e gli “anarchici ignoti” che hanno combattuto contro il governo tedesco/bavarese. [↩]
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Drop the Hate / Commenti (2)
#2
Vomito & Lacrimogeni: La Protesta #NoTav Secondo La Polizia | La Privata Repubblica
[…] nelle loro funzioni». Infine – similmente a quanto successo ai loro omologhi greci a Keratea – il sindacato accusa la politica di non voler prendersi le sue responsabilità e si riserva […]
#1
Peo
Grazie, bellissimo, che ci sia di guida e di sprone