La Battaglia Di Keratea
Bloko Keratea – 05/01/2011
Sono nata come semplice bottiglia di birra. Mi stanno bevendo in gruppo, forse nella cucina di qualcuno a Keratea, una piccola città di 15mila abitanti a 40 km da Atene. O nel retro di qualche negozio. O all’interno della baracca a presidio del bloko, il blocco che spezza l’autostrada che parte dalla capitale e arriva all’estremità dell’Attica sudorientale. Seguo attentamente i loro discorsi, mentre mi passano di mano in mano. Durante la giornata c’erano state le solite battaglie tra il MAT (il reparto antisommossa delle forze speciali greche) e i cittadini. Ma questa notte tutto è diverso.
La polizia, grazie all’impiego di mezzi pesanti, cannoni ad acqua e ruspe, riesce a forzare il blocco. La bandiera greca appesa alle assi di legno viene brutalmente schiacciata dalle ruote dei blindati. A quel punto i poliziotti, riemersi dalla nube di gas lacrimogeni, passano con piglio deciso l’ex bloko, con le fiamme dei falò a baluginare sulle visiere dei loro caschi. Ai lati della strada sono parcheggiate alcune macchine di cittadini. Su di loro cominciano gratuitamente ad abbattersi gli scarponi e a roteare i manganelli. Fuori i vetri. Adieu, specchietti. So long, fiancate. Il MAT, non contento, stacca le targhe dei camion che fungevano da barricata per una delle due corsie e chiama i vigili urbani per multare i veicoli. Non appena arriva la notizia, gli abitanti attorno al tavolo dove mi trovo sono furiosi. La provocazione: inaccettabile, inaudita, infame. Mi scolano in fretta. Poi versano al mio interno della benzina, ci mettono del polistirolo e avvolgono uno straccio intorno al mio collo.
Quando arriviamo davanti alla centrale, ci sono già trecento persone. Una gragnuola di sassi e pietre piove sulla costruzione bianca. I poliziotti sono asserragliati nell’atrio. Le multe vengono stracciate platealmente davanti all’ingresso principale. Due macchine appartenenti a poliziotti sotto copertura sono rovesciate. Un accendino infiamma il mio innesco. Un ragazzo mi accompagna con la sua mano destra per qualche metro, sibila “malakas” e mi scaraventa dentro una finestra sul lato della stazione. All’impatto col pavimento esplodo in un tripudio di schegge e le fiamme si dimenano incontrollabili, lambiscono il soffitto e rosicchiano l’intonaco. Questa è la notte di San Bartolomeo. La notte in cui la leggenda che i poliziotti “eseguono solo gli ordini” è finita per sempre. La notte in cui tutto è cambiato.
ζ
Fino a una decina di anni fa, Keratea era semplicemente una delle piccole e sonnolente cittadine disseminate nella Mesogeia, a sud-est di Atene. Ricca di storia, siti archeologici e miniere, l’intera zona è inserita in un panorama naturale da pinacoteca che sale sulle montagne, si immerge nel verde scuro delle foreste, scende fino alla terra color ocra riarsa dal sole ed infine sfocia nel mare nelle località litoranee. La costruzione dell’aeroporto internazionale di Atene, l’autostrada Attiki Odos, la metro, i porti di Lavrio e Rafina ed una convulsa attività edilizia portata avanti in totale spregio di ogni legge ha completamente sconvolto la geografia dell’area, trasformandola in un sobborgo de facto della capitale – un parco giochi per abusi edilizi finalizzati alle attività ricreative degli ateniesi e al turismo. L’evoluzione di questa specie di gentrificazione è facilmente rintracciabile dai segni lasciati dagli incendi spontanei che ogni anno, casualmente, divorano foreste e terreni.
La decisione del governo greco di costruire un’enorme discarica di 50 ettari sul monte Ovriokastro, ad appena 6 km dalla cittadina, è stata vista dalla popolazione locale come un’esplicita dichiarazione di guerra, l’ultima goccia di nitroglicerina che ha fatto detonare un vaso di devastazione ambientale, speculazione selvaggia e calpestamento della volontà popolare più che decennale. Dal dicembre del 2010 fino all’aprile del 2011 il sito di costruzione della discarica, le autostrade, i campi e la stessa città di Keratea si sono violentemente tramutati in scenari di guerriglia in cui ogni singolo abitante, dai 15 fino agli 80 anni, è stato attivamente coinvolto 24/7.
Arrivo al bloko in un torrido mezzogiorno di fine luglio. La baracca è ancora lì, isolata tra i campi e i semafori degli incroci. L’entrata è sbarrata con assi di legno, ma si riescono ugualmente a scorgere le pareti tappezzate di giornali locali, poster e manifesti, dei tavoli, un frigo spento e alcune sedie sparse in modo irregolare, come se fossero state abbandonate da pochissimo. L’impressione è che sulle assi potrebbe tranquillamente esserci un post-it con su scritto “Torno subito”. Questo presidio, infatti, assomiglia ad un avamposto al confine con una terra nemica, temporaneamente deserto in ottemperanza ad una fragile tregua. L’appuntamento è con Sotiris Iatrou, un giovane consigliere comunale1 eletto in una lista civica indipendente. Insieme a me ci sono il fotografo e due traduttori di piazza Syntagma, che di lì a poco sarebbe stata sgomberata dalle autorità di Atene.
È qui che è cominciato tutto. L’11 dicembre del 2010 arrivano i veicoli della ditta che ha vinto l’appalto della costruzione. I mezzi sono vecchi e in pessime condizioni, praticamente inservibili. La loro funzione: stabilire simbolicamente una presenza in situ per ottenere i fondi europei per la discarica. Gli scontri sono feroci – lanci di molotov, sassaiole, cariche del MAT, getti d’acqua scagliati da cannoni montati sui blindati della polizia, feriti, arresti. I cittadini riescono comunque a distruggere e bruciare i veicoli. Ad un certo punto trapela l’informazione che gli appaltatori stanno mandando nuovi mezzi per iniziare i lavori attraverso il percorso alternativo che normalmente porta alle cittadine costiere, evitando così il blocco di Keratea. Temendo di lasciarsi sfuggire i veicoli sotto il naso, gli abitanti allestiscono in un altro punto dell’autostrada un ulteriore blocco stradale, servendosi di macerie e detriti. La polizia, dotata solamente di una gru motorizzata, non riesce a forzare il blocco. Gli abitanti hanno così il controllo totale su ogni movimento. L’unico modo di arrivare all’Ovriokastro è quello di passare dentro la città. Una soluzione decisamente impraticabile.
“Non siamo persone violente”, spiega Iatrou. “Ma visto com’era impostata la situazione politica, siamo stati costretti ad usare tattiche di guerra”. I metodi sperimentati in quei lunghi 128 giorni sono stati i più disparati: sabotaggi ai macchinari, barricate, blocchi e chiodi sull’asfalto al passaggio dei mezzi della polizia. “Questi erano i più leggeri”, dice il consigliere. E i più pesanti? “Be’, abbiamo anche usato la dinamite per divellere le strade”. Mentre stiamo parlando, improvvisamente un camion si avvicina al casolare e accosta. Dal finestrino si sporge il guidatore, che esclama: “Che succede? Si riinizia di nuovo?” Ridiamo tutti. No, è solo un’intervista, gli spiegano. L’autista fa un cenno con il capo e saluta. Sembrava dannatamente serio.
(In questa pagina: illustrazione di Mario Perrotta / foto di Alessandro Rampazzo.)
- All’epoca dei disordini – o “guerra”, come la chiama lui – Iatrou era consigliere di maggioranza. [↩]
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Drop the Hate / Commenti (2)
#2
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Peo
Grazie, bellissimo, che ci sia di guida e di sprone