To Shoot An Elephant
Un grido s’avvicina, attraversando il cielo. È già successo prima, però niente di paragonabile ad adesso.
Thomas Pynchon
Uno degli esperimenti mentali più famosi nel mondo della meccanica quantistica è quello del paradosso del gatto di Schrödinger. Il fisico austriaco ipotizzava una situazione in cui un gatto viene rinchiuso in una scatola d’acciaio insieme ad un contatore Geiger in cui si trova una piccola porzione di sostanza radioattiva i cui atomi potrebbero, nel giro di un’ora, non disintegrarsi – lasciando dunque vivo il gatto – oppure disintegrarsi. In questo ultimo caso, il rilascio farebbe scattare il meccanismo di un martelletto che andrebbe a colpire una fiala di cianuro, uccidendo il gatto. Ovviamente finché qualcuno non apre la scatola non si può sapere se il gatto sia vivo o morto: bisogna compiere un’osservazione per risolvere il dilemma.
Operando le debite distanze, quello che è successo a Gaza poco più di un anno fa può essere considerato a buon ragione un paradosso. Il paradosso della Striscia.
Prendiamo la popolazione occidentale sotto le feste del Natale. La gente comune è impegnata a svuotare i fondi del portafoglio, a ingozzarsi ai cenoni e a far finta di sembrare meno stronza – e una guerra asimmetrica è un fastidio difficile da digerire insieme al panettone. I boss dei grandi media, da parte loro, sono a Cancun, alle Seychelles o in qualche altro posto esotico a sorseggiare Long Island, con il Blackberry spento e qualche attachè a svolgere il loro lavoro.
Adesso prendiamo il governo israeliano. Tra qualche mese la presidenza americana cambierà e l’amico dal ghigno perenne e dalla faccia intontita, George W. Bush, colui che ha permesso loro di fare qualsiasi cosa, sparirà – e nessuno sa ancora cosa aspettarsi dal nuovo presidente. Aggiungiamoci pure l’ininterrotta schermaglia con Hamas al confine della Striscia, i lanci di razzi della resistenza palestinese e gli arsenali israeliani che straboccano di bombe, missili e munizioni. E poi mescoliamo il tutto con il vicino rinnovo elettorale della Knesset.
Ora, se Schrödinger ha usato un gatto per il suo esperimento, Israele ha utilizzato la popolazione palestinese per il suo, cioè evitare che tutto il mondo vedesse l’enorme distruzione che ha operato tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 in quell’affollata, disgraziata e contesa lingua di terra. Il governo israeliano, con una decisione degna dei folli generali birmani, ha interdetto l’accesso alla stampa durante tutto lo svolgersi dell’operazione “Piombo Fuso”. Nessun flash fotografico, nessuna penna e nessuna telecamera avrebbero potuto, nell’intenzione israeliana, gettare dall’esterno un fascio di luce sugli effetti dell’impressionante ed illegale devastazione così meticolosamente predisposta da Tel Aviv, soprattutto in un periodo giornalistico in cui l’operazione avrebbe avuto la massima risonanza.
Ma Olmert, Barak e soci non avevano calcolato, o non li avevano considerati pericolosi, quelli che erano dentro. Quelli che hanno visto, insieme ai morti, la fine della guerra.
Infinite discussioni sull’elefante
Lo spagnolo Alberto Arce si trovava a Gaza insieme ai suoi compagni dell’Ism (International Solidarity Movement) quando le grida degli F16 israeliani attraversavano violentemente il cielo, mescolandosi agli strazi delle prime vittime civili e dei relativi familiari. In quei ventuno giorni Arce da attivista si è trasformato in testimone munito di videocamera e, soprattutto, di Mohammad Rujailah, un giovane palestinese di 24 anni che ha fornito un fondamentale apporto linguistico e logistico.
“To shoot an elephant”1 (2009), documentario liberamente scaricabile da Internet (è in copyleft) o acquistabile in Dvd, è la prova audiovisiva di quello che è successo in quel drammatico e furibondo lasso di tempo nel “più grande campo di concentramento al mondo” – enfatica definizione palestinese della Striscia di Gaza che si sta avvicinando sempre di più alla realtà.
Il film inizia con un panno che pulisce la telecamera, una telecamera che nelle quasi 2 ore di durata della pellicola sarà continuamente sporcata dal sangue delle membra straziate dei palestinesi, dalla polvere, dalle fiamme, dalle esalazioni del fosforo bianco e dalle volute di fumo sprigionate dalle bombe, dai missili e dall’artiglieria sugli edifici, sugli ospedali e sulle scuole dell’Onu. Arce ci immerge di peso nella strade martoriate di Gaza e prende la minima distanza di sicurezza tra di sé e quelli che il rapporto Goldstone della commissione d’inchiesta Onu su Gaza ha chiamato con il loro nome: crimini di guerra.
Non c’è nessuna colonna sonora in TSAE, ma solo un diegetico fluire di esplosioni, urla, spari e sirene delle ambulanze della Mezzaluna Rossa. E non c’è un attimo di respiro in queste riprese insonni, convulse e fastidiose per l’estrema crudezza visiva e psicologica. Negli unici momenti in cui gli Hellfire sparati dagli elicotteri non vanno ad impattare sulle costruzioni la sensazione di disagio rimane immutata, se non addirittura amplificata: le immagini si concentrano sulle conversazioni tra paramedici (“Allora, che ha detto tua moglie?” “Ha detto: ‘Lo so che ti farai ammazzare’”) e sui disperati lamenti della popolazione. “Per favore, diteci quanti omicidi volete, quante persone morte, per far smettere questi combattimenti. Diteci il numero!” grida forsennatamente un palestinese ad un’attivista dell’Ism, roteando le braccia verso l’alto. Ed il numero è inevitabilmente alto.
Per fermarsi Israele ha avuto bisogno di 1.417 morti2, tra cui 313 bambini, in quella che è stata la più atroce ed evidente articolazione bellica di una politica di gestione del territorio “palestianfrei” (per riprendere una contestatissima espressione del filosofo sloveno Slavoj Zizek), cioè volta de facto alla rimozione della presenza palestinese da certe zone – un’eliminazione riparata da un ombrello giustificativo che si allontana sempre di più dal diritto all’autodifesa.
Una politica che si potrebbe definire di “decimazione” dell’avversario militare, in questo caso Hamas, e non: nello sganciare una bomba da 10mila metri d’altezza non si può non tenere conto della densità abitativa (1 milione e 400mila abitanti) e demografica di un pezzo di terra di appena 360 chilometri quadrati. Ne sei consapevole, ne accetti l’evenienza e quindi non fai altro che scaricare tutte le conseguenze delle tue azioni su coloro che devono rimanere lì sotto embargo, senza cibo, acqua, economia e speranza.
Questo ovviamente puoi farlo solo se sei sicuro della tua impunità. Un’impunità che ha fatto dire ad un ministro israeliano rimasto anonimo3 una cosa del genere: “Quando emergeranno le enormi distruzioni della Striscia di Gaza, non potrò più andare ad Amsterdam per turismo, ma solo per comparire davanti al Tribunale Internazionale dell’Aja”.
La stessa impunità che fa dire a Rujailah alla fine del film, di fronte alle fiamme che stanno divorando il più grande magazzino di aiuti internazionali della Striscia colpito dalle bombe: “Credo che d’ora in poi non darò la colpa ad Israele, darò la colpa alla comunità internazionale, perché sono state stabilite delle leggi e gli israeliani non fanno che infrangerle. E voi non fate niente”.
L’occhio della guerra
Vittorio Arrigoni (anche lui attivista dell’Ism, presente nel documentario) ha scritto in “Restiamo umani”: “Gaza poggia su di una striscia di terra che non trema. Il terremoto qui si chiama Israele”. TSAE è la perfetta rappresentazione visiva di questa frase. La telecamera viene sballottata qua e là di continuo, alla ricerca di un posto dove ripararsi, tra le macerie, all’interno di un’ambulanza, sotto il fuoco dei cecchini. Non c’è nessuna manipolazione artistica nel film. C’è solo la squallida, ingiusta e lurida realtà.
Arce non è lì nelle vesti di regista, ma piuttosto in quelle di giornalista alla ricerca onnivora di un momento significativo da filmare, all’inseguimento urgente e irrequieto di un evento da imprimere sulla coscienza negata dall’oscuramento mediatico, di un qualcosa che nessuno poteva o voleva dire in quella contingenza. E il giornalismo di Arce non è quello favolistico modello anni ’30 propugnato dagli apostoli ipocriti dell’Obiettività, è un giornalismo di parte, “embedded” con le ambulanze e i paramedici – cioè con coloro che volontariamente rischiano la loro vita per salvarne altre, invece di toglierne.
Vladimir Nabokov ne “L’occhio” scriveva di aver capito che “l’unica felicità a questo mondo sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue”.
“To shoot an elephant” invece ci fa capire che una delle poche soluzioni praticabili per questo paradosso della Striscia sta nell’osservare, sorvegliare, registrare ed esaminare tutto quello che non si vuole far vedere, nel non essere che un grande occhio mobile, un po’ umido per le esalazioni ed il gas dei metalli fusi, decisamente iniettato del sangue degli altri.
- Il titolo proviene da un saggio breve di Orwell, “Shooting an elephant“. [↩]
- Secondo le stime del PCHR (Palestianian centre for Human Rights). Le stime dell’IDF (Esercito israeliano) si attestano su 1.166 morti. [↩]
- Ma che, in base al mandato di cattura spiccato da un giudice britannico questo gennaio e poi subito ritirato, potrebbe essere l’ex ministro degli esteri Tipzi Livni. [↩]
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Drop the Hate / Commenti (8)
#3
George Frusciante
per scaricare il filmato da piratebay. ora me lo sto vedendo in streaming, dopo 20 minuti mi è già venuto un infarto.
#4
blicero
Oggi mi dicono che in Italia piratebay non funziona (a me funziona perchè ora sono in Francia), probabilmente ha a che fare con questo.
Prova a scaricarlo da Isohunt: http://isohunt.com/torrent_details/147948973/to+shoot+an+elephant?tab=summary
#5
#6
brian77
guardate che ci sono tanti modi per vederlo facilmente. io l’ho visto direttamente su http://www.toshootanelephant.com.
#7
#8
360 Km2, La Vita E Tutto Il Resto - La Privata Repubblica
[…] fine di “To shoot an elephant”1, il “tuttofare” Mohammad Rujailah – mentre sullo sfondo un magazzino di […]
#1
George Frusciante
Arrigoni, quando venne a Cagliari pochi mesi fa, mostrò alcune di quelle immagini spaventose; l’intero film dev’essere ancora più agghiacciante, però il link non funziona.