Kolovrat Nation
II
Alba Bruna.
Piazza Manezhnaya e dintorni, agosto 1991. L’URSS collassa. Le statue del regime vengono tirate giù, le bandiere russe rimpiazzano quelle sovietiche e i festeggiamenti si protraggono fino a notte fonda. Per la maggior parte delle persone che si trova in quella piazza è la nascita della democrazia russa. Ma per Aleksandr Belov, che si trovava lì con un amico per distribuire volantini del Pamyat (un gruppo nazionalista e anti-semita sorto negli anni ’70 che si rifaceva alla tradizione dei “Cento Neri” di inizio secolo), è qualcos’altro. È l’inizio di una storia parallela, di un’avventura sotterranea. “Sapevamo che questi liberali avrebbero fallito – ha dichiarato a Newsweek nell’agosto del 2011 – e che il loro fallimento avrebbe alimentato la nostra l’ascesa. L’ascesa della destra”.
La lunga ascesa comincia all’inizio degli anni Novanta. A Mosca, San Pietroburgo e altre grandi città iniziano a comparire gruppuscoli di skinhead, animati più dallo spirito di emulazione dei loro omologhi occidentali che da un progetto politico organico. Contestualmente Aleksandr Barkashov fonda la RNE (Russkoie Natsionalnoie Edinstvo, Unione Nazionale Russa), il primo movimento di estrema destra in grado di attirare un gran numero di giovani alienati e abbandonati da una società post-sovietica sferzata da devastanti crisi economiche e dallo smantellamento del sistema educativo. Nel 1994, probabilmente come indiretta conseguenza della sanguinosa “crisi costituzionale” dell’ottobre 1993, i naziskin passano in pochi mesi da poche centinaia a migliaia e migliaia di unità.
Il 20 aprile del 1995 la questione neonazista passa nel giro di una notte da “Minaccia Accettabile E Controllabile” a “Potenziale Catastrofe Nazionale”. È il giorno del compleanno di Adolf Hitler: per festeggiare la ricorrenza, un branco di skinhead capeggiato da Artem Talakin massacra sulla metro un immigrato azero e si porta via un suo orecchio come souvenir. La polizia arresta e incrimina solamente Talakin, che viene condannato ad una pena relativamente mite. Resta in carcere poco più di un anno.
Alla fine degli anni Novanta, come ha scritto Le Monde Diplomatique, la Russia si ritrova “senza Stato né economia”. Gli anni al potere di El’cin volgono al termine, la crisi finanziaria diventa ingestibile, i minatori e altri lavoratori paralizzano il traffico ferroviario in Siberia occidentale con scioperi di massa (è la cosiddetta “guerra delle ferrovie”) e la rapina delle risorse del Paese non conosce sosta. In un simile terreno la violenza fascista prospera e si ramifica in maniera del tutto incontrollata, sottovalutata – se non tollerata o addirittura incoraggiata – dalla polizia e sostanzialmente ignorata dai media, troppo occupati a seguire il crollo della Borsa e i piani di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale.
Il 20 aprile del 1998 le redazioni di alcuni quotidiani di Mosca ricevono telefonate anonime da vari gruppi neonazisti. La minaccia è quella di uccidere “un nero al giorno”. Ed è seria. Fino al 9 maggio (il “Giorno della Vittoria”) le cronache della capitale si riempiono di pestaggi, aggressioni a sfondo razziale, pogrom e omicidi. Le ambasciate di Benin, Sudan, India e Sudafrica protestano formalmente, chiedendo al Ministero dell’interno russo di prendere provvedimenti. L’ambasciata degli Stati Uniti invita esplicitamente gli afro-americani a non camminare per strada da soli. Ma non serve a nulla: il 4 maggio William Jefferson, una guardia di colore dell’ambasciata americana, viene aggredito dagli skinhead e lasciato in fin di vita nei pressi del parco Fili.
L’affaire Jefferson è troppo grande per essere ignorato, e gli skinhead russi fanno così la loro comparsa sulle prime pagine di tutto il mondo. Incuranti dell’attenzione mediatica internazionale, o forse proprio per questo, il 7 maggio i neonazisti compiono il loro primo pogrom su larga scala al mercato Lužniki. La missione: massacrare i Gastarbeiter (i lavoratori immigrati), in prevalenza caucasici e azeri. Quest’ultimi, però, oppongono una strenua resistenza. Messi in difficoltà, gli estremisti chiedono aiuto alla polizia. Incredibilmente, invece di arrestarli, gli agenti passano loro dei walkie-talkie che vengono usati per chiamare rinforzi.
Nel frattempo, grazie soprattutto alla pressione esercitata dagli Stati Uniti, l’aggressore di Jefferson viene arrestato. Si tratta del ventiduenne Semyon Tokmakov, leader di “Obiettivo Russo” (Russkaja Cel’), un gruppo che all’epoca era composto da appena 25 persone. Il processo inizia a settembre: è il primo ad essere celebrato per reati commessi ex articolo 282 del codice penale russo, che vieta l’istigazione all’odio e alla violenza verso qualsiasi gruppo sociale. In aula, Tokmakov non si mostra affatto pentito. Anzi. Dichiara che “i neri sono la causa di tutti i mali” e che, se gli fosse offerta un’altra possibilità, rifarebbe di nuovo quello che ha fatto a Jefferson.
Fuori dal tribunale la popolarità dell’imputato e della sua organizzazione cresce a dismisura. Skinhead provenienti da altre città vanno fino a Mosca per manifestare davanti all’ambasciata americana, intonando cori razzisti e definendo Jefferson “una checca schifosa”. Al termine del dibattimento Tokmakov viene condannato a tre anni di reclusione. Poi accade l’inspiegabile: il Ministro della giustizia gli concede l’amnistia. Tokmakov può quindi tornare in libertà e atteggiarsi a “eroe”.
Il caso Tokmakov, tuttavia, non rimane un unicum. Negli anni successivi se ne verificano molti altri di analoghi, se non peggiori. E sono tutti casi che sollevano una serie di inquietanti interrogativi. Da che parte stanno le autorità? C’è qualcuno che copre e protegge i fascisti dall’alto? A che partita sta giocando il Cremlino? Intervistato da Matt Taibbi nel 2001 (ovvero nei primi anni della presidenza Putin), Sergei Mitrokhin – l’attuale vicepresidente del partito d’opposizione Yabloko – offre al giornale in lingua inglese The Exile la sua versione dei fatti: “È molto conveniente per un governo autoritario avere a disposizione queste masse di giovani volenterosi e violenti, disposti a fare più o meno tutto quello che ordini loro”.
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Drop the Hate / Commenti (3)
#2
Fede
Con i tuoi articoli scopro sempre qualcosa che primo ignoravo (o quasi).
Ottimo lavoro.
Una domanda: ma tu di Medvedev cosa ne pensi? E’ solo una propaggine di Putin, o conta davvero qualcosa?
#1
Stefano
Eccellente. Agghiacciante.