Kamerad, Komm Tanz Mit Mir
ALLEMANDA
La grande sala era ornata di drappi, stendardi hitleriani ed arazzi, irradiata dalle forti luci che promanavano dagli imponenti lampadari, invasa dal vociare degli astanti, scossa dal tintinnare delle posate, dall’incontrarsi dei bicchieri di cristallo già carichi di champagne e di cognac, inondata dalla marea sonora provocata dal battere degli stivali sul marmo, dai tacchi che risuonavano ed echeggiavano come denti d’oro lasciati cadere per terra, solcata dai passi malfermi ed affrettati della servitù (ebrea, ovviamente) che portava a getto continuo imponenti portate. Reichpolis, evidentemente, era sfuggita al razionamento dei viveri imposto dal ministero, o quantomeno v’era stata la sospensione del provvedimento per una sera.
Un gruppo misto formato da ufficiali SS/Gestapo/RSHA si era avventato sull’enorme vitello portato dalla schiavitù sull’imponente tavolata centrale. Ne riconobbi alcuni e li salutai, ma loro non mi prestarono molta attenzione, attenti com’erano a non cedere un solo millimetro ai contendenti. Ad un certo punto lo Sturmbannführer Gödel, si chiamava così, mosse il coltellaccio che teneva in mano in direzione del collo di un Hauptmann della Gestapo, Escher, squarciandolo – il sangue incominciò ad uscire a fiotti, ricoprendo come una squisita marmellata di mirtilli una zampa della bestia: “Poco male, quella non si mangia!” urlarono due signori in frac, ampiamente divertiti dalla feroce ilarità della scenetta che si concluse con una semi sparatoria e due cadaveri e mezzo. Il cadavere dell’ufficiale della Gestapo, in particolare, franò a terra, si mise in una posizione innaturale e venne strattonato qua e là dai quattro colpi sparati insensatamente da un collega, un irrituale valzer solista che sembrava divertire molto la Contessa, che era al mio fianco. Anche io mi misi a ridacchiare, dando un calcione al culo di una serva ebrea: “Dov’è il mio Cognac, Flittchen? Vuoi finire nel forno, eh?” imprecai retoricamente contro di lei, sempre con il massimo rispetto per la schiavitù.
I grammofoni intanto diffondevano nella sala un’Aria di non so quale autore, e le pareti facevano rimbalzare le note, che si rincorrevano soavi nel tripudio austriaco promosso dalle magnanime SS. In un angolo vidi un Goldfasanen dell’Ostministerium, ubriaco fradicio, palpare e tastare con grande foga le tette e le parti intime di un’attempata signora che cercava di coprire la patetica scena con un ombrellino da giardino sapientemente manovrato da mani che dovevano aver praticato molta masturbazione.
Vicino ad una grande cassapanca adibita ad improvvisato talamo scorsi un grassone senza un braccio steso per terra. Aveva la tipica fascia rossa con la croce uncinata sugli occhi, la giacca e la camicia inzuppata di brandy, la cravatta infilata nella patta. Mi avvicinai, ma venni fermato da un giovane soldato: “No! Lo lasci stare!” “Cosa?” “Vede, quando l’Oberst Hoffmeister si ubriaca, fa sempre così: per dare spettacolo e far colpo sulle donne rievoca il momento in cui ha perso un braccio a Stalingrado, nel ’42, ma si rattrista a tal punto che si versa sempre addosso la bottiglia di alcool che ha in mano e finisce per fare le cose più assurde. Prima credeva che la fascia fosse la vagina asportata di Olga Chekhova e voleva penetrarla, ma ha detto che i russi gli hanno portato via anche la virilità.”
“Ah.”
“Non sappiamo più cosa fare con lui, mi creda.”
“Si, lo vedo.” Mi sporsi verso di lui e gli sussurai in un orecchio: “Vedete di portare via quest’ammasso di lardo, prima che vi spari un colpo in mezzo alle gambe o che faccia rapporto all’OKH per farvi trasferire al fronte orientale entro domani mattina”. Il giovane sbiancò, chiamò altri soldati e l’enorme ufficiale venne trascinato a fatica in un’altra stanza.
Le portate non accennavano a finire. Il pavimento ormai straripava di sbronzi, di bevande rovesciate, di vetri e di avanzi di cibo. Io ero all’ottavo o nono bicchiere di vino e al terzo brandy e riuscivo a stento a formulare concetti compiuti. Incominciai ad avvertire cattive vibrazioni quando un ufficiale SS vomitò sul suo piatto e continuò tranquillamente a mangiare la sua anitra al gusto succhi gastrici/intestino crasso. La dama al suo fianco scenerava la sigaretta nella coppa di champagne piena, che poi trangugiò con avidità, toccandosi inspiegabilmente sotto la gonna. Incominciò a girarmi la testa. Ma evidentemente non girava solo a me.
Mi accorsi del silenzio che per un lunghissimo, interminabile momento vibrò nella sala, interrotto dall’avvio di quel meccanismo che aveva reso possibile la realizzazione accademica del totalitarismo, lo scoppio repentino di una guerra su scala globale e lo sterminio sistematico, scientifico e programmato di esseri umani, un meccanismo che rimbalzava dagli Sturmbannführer agli Oberstleutnant, dalle accompagnatrici ai funzionari di partito, dai soldati ai civili, dagli impiegati alle puttane: una Macchina perfetta ed efficientissima, seppur sprovvista di alcuni ingranaggi fondamentali (anzi, proprio per quello). L’Umanità, la Giustizia, la Pietà, la Compassione e quant’altro. Sarebbe bastato uno solo di questi ingranaggi per inceppare irrimediabilmente il congegno. Ma nessuno, quella sera, si sarebbe preso la responsabilità di metterlo dentro. Troppo alcool, troppa nicotina, troppa droga. Troppo poco tempo rimanente. La sensazione predominante era quella di un’indifferenza tetra, spaventosa, senza limiti.
E allora, perchè lasciarsi sfuggire l’occasione? Perchè finire, come al solito, a fornicare inconsapevolmente nelle stanze da letto ai piani superiori? Perchè non approfittare del crepuscolo del conflitto, del fallimento dell’Idea di Nazione, del crollo della Dottrina, della follia del Führer? La guerra era lo sbocco naturale della Weltanschauung nazionalsocialista. La lebensunwertes Leben, in quel preciso momento, era la nostra. C’erano centinaia di ebrei che si trovavano nei sotterranei del castello.
Ignari. Inermi. Indifesi. Inutili.
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Drop the Hate / Commenti (11)
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#2
McLaud
Seguo da diverso tempo “La privata repubblica” e ho sempre apprezzato molto la grande cura riposta nello stile e nei contenuti dei vari post. In particolare ho sempre amato l’inversione con cui, prendendo le parti dei bersagli della satira, si presentano i fatti caricandoli con una geniale ironia paradossale.
Bene, ora arriva il “ma”: mentre il primo post in cui si parlava di Blicero si poteva intendere come un colto riferimento (con relativo “calco” stilistico) a Pynchon per denunciare gli orrori di un secolo di guerre, qui pare di essere di fronte ad un mero esercizio di stile.
La riproduzione degli ambienti, delle depravazioni sessuali e morali dei decadenti gerarchi nazisti (infiorata qua e là di qualche riferimento colto e di pseudo-storia pynchoniana) all’esito sembra un pamphlet ottenuto incrociando la propaganda alleata post-bellica, qualche puntata dell’atroce programma paradocumentaristico Voyager e alcune sequenze dei film di Indiana Jones.
Il regime nazista ha compiuto atrocità ben al di là delle leziose (e nient’affatto “nuove”) descrizioni da grand guignol che sono fatte in quest’ultimo post. Mi spiace, ma anche a voler concedere che si tratti di un climax di efferatezze elaborato di proposito per alimentare il (giusto) raccapriccio verso il nazismo, lo trovo privo di valore.
Sono abbastanza accorto da non ritenere che ci sia qualche intento apologetico in questo scritto, né credo che debba essere presente una qualsivoglia catarsi per liberare il lettore dall’artefatta depravazione che esso ostenta.
Tuttavia, e senza voler innescare inutili polemiche, vorrei sapere quale sia stata l’intenzione che ha spinto ad inserire nel blog un post di questo genere.
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#5
andrea poulain
sembra un film dell’orrore..
immensa tristezza nel sapere che certe cose possono essere successe veramente..brutta bestia l’uomo..
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#6
McLaud
Ho letto la notizia che hai inserito nel link e mi stupisco che abbia preso a riferimento il racconto fatto da un editore (Litchfield) di riviste scandalistiche, peraltro vivacemente criticato da storici seri ( http://www.spiegel.de/international/germany/0,1518,512869,00.html ).
Stragi di massa di ebrei hanno avuto frequentemente luogo al di fuori dei campi di concentramento; in particolare, gli ebrei deportati per la costruzione dell’Ostwall sono stati spesso vittime non solo delle truppe naziste, ma anche delle popolazioni locali, il cui pregiudizio antisemita era sempre stato presente ed anche ulteriormente alimentato dal regime. Numerosi eccidi possono ascriversi agli uni o agli altri e sono narrati da studiosi che certamente non ambiscono a notorietà e denaro, come l’autore della biografia non autorizzata dei Thyssen. Dello strettissimo collegamento di questi ultimi col regime nazista non c’è poi nemmeno bisogno di parlare.
Probabilmente, si può rendere il giusto omaggio alla memoria delle vittime della follia nazista senza bisogno di evocare festini ed orge macabramente sovraccarichi, ed io mi astengo dal giudizio morale su uno scritto che è volutamente orientato a descrivere intense brutalità caricandole graficamente, come un fumetto di Miller & co.
Tuttavia, mi pare giusto segnalare che ben altri sono gli orrori nazisti e che non bisognerebbe dare troppo credito ad un paparazzo in cerca di pubblicità.
Con invariata stima.
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#7
harlot
> mi stupisco che abbia preso a riferimento
Oh noes, non stupirti!11! Mica dico che è vero: è un racconto; è finzione che prende spunto da un fatto che non si sa se sia avvenuto o meno. Nessuno da credito ad un paparazzo in cerca di pubblicità, stai tranquillo.
Detto ciò, mi aveva colpito proprio l’ipotesi che un tale massacro fosse stata una sorta di protesi ad una della “marce della morte” che avvenivano verso la fine della guerra. Ne “I volonterosi carnefici di Hitler” Goldhagen parla di 3 tipi di carnefici: i battaglioni di polizia, i funzionari dei lager e i responsabili/guardie nelle marce della morte, ovvero “l’analogo deambulatorio dei carri bestiame”. Goldhagen si sofferma particolarmente sulla brutalità irrazionale, gratuita ed insensata delle guardie.
Ecco, e se si aggiungese un’altra sotto (o super) categoria a questa terza tipologia di carnefici? E se ci fossero degli ufficiali che raccolgono quel che rimane delle marce della morte e lo finiscono insensatamente, ancora più atrocemente, per giunta sotto effetto di alcolici e di droghe, estremamente eccitati e infervorati?
Nel racconto c’è un riferimento alla lebensunwertes Leben, cioè la vita senza dignità di vita, concetto aberrante elaborato negli anni 20 e poi estremizzato dal nazismo. Lo psicologo Jay Lifton parla di teoria che si svolge in 5 passi, l’ultimo dei quali è il massacro indiscriminato dentro e fuori i campi. E un massacro nato motu proprio, quasi autogeneratosi, dentro un castello dove si colloca?
Nel commento precedente avevi parlato di “pamphlet ottenuto incrociando la propaganda alleata post-bellica, qualche puntata dell’atroce programma paradocumentaristico Voyager e alcune sequenze dei film di Indiana Jones” e poi di Miller. No. L’ambientazione non è da graphic novel, è piuttosto ispirata da la “Caduta degli Dei” di Visconti.
Tutto il racconto sta tra il grottesco, con venature macabre, e l’umido (ci sono fluidi corporali e non di ogni tipo) – quest’ultimo è concetto elaborato da Klaus Theweleit in “Virili fantasie” e ripreso da Littell ne “Le Benevole” e nel breve saggio “Il secco e l’umido”, che è una sorta di appendice al romanzo. In poche parole, per Theweleit il risentimento e l’odio nazista nascono dal terrore e dalla ripulsione per la vischiosità, per la fluidità dell’esistenza – da qui il desiderio di annientare tutto ciò che è femmineo e liquido (negli anni 20 i bolscevichi, poi gli ebrei).
Sempre Theweleit scrive: “Il fascismo permette alle masse di dare espressione alle pulsioni represse, ai desideri racchiusi”, promettendo così all’uomo “il ricongiungimento delle parti ostili a condizioni sopportabili, il dominio dell’uomo sul ‘femminile’ ostile dentro di sé”. Appunto.
Per concludere:
> mi pare giusto segnalare che ben altri sono gli orrori nazisti
Certo. L’opera definitiva sugli orrori nazisti l’ha fatta il grande Claude Lanzmann (“Shoah”). Che però, riferendosi all’opera di Littell, dice una cosa (“I carnefici non parlano affatto”) che Theweleit stigmatizza: “È vero, i carnefici si sono rifiutati di parlare di fronte alla sua telecamera. Ma tra loro hanno sempre parlato”.
E non sempre erano belle cose quelle che si dicevano.
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#8
McLaud
Grazie per la risposta, non mi aspettavo di meno da te.
E’ certo che non hai mai sostenuto che fosse vero quanto affermato da Litchfield: mi aveva solo colpito che avessi preso spunti da quel dubbio episodio. Peraltro, le mie inclinazioni letterarie non mi hanno consentito di cogliere i riferimenti da te indicati, tranne quelli che ho già menzionato in precedenza.
Il mio giudizio è stato solo estetico, d’altronde che questo post – come gli altri da te scritti – fosse molto “lavorato” era più che evidente.
Mi permetto di aggiungere che la teoria del “lebensunwertes Leben” può essersi sviluppata solo in un contesto sociale estremamente deviato e condizionato; un contesto in cui il vincolo del müssen è talmente irresistibile da ottundere ed infine schiacciare il “pensiero alternativo” e da rappresentare altresì, quasi spontaneamente, l’unica difesa di chi si è macchiato delle peggiori atrocità: l’obbedienza agli ordini, anche se non è sufficiente a garantire la sanità mentale degli esecutori, è comunque idonea a mantenerne immacolate le coscienze.
A Norimberga è stato uno degli argomenti più ricorrenti ed anche Eichmann se n’è valso…ciononostante, si può disobbedire ad un ordine criminale e questo è un principio giuridico comune a moltissimi ordinamenti.
Non solo, anche sul piano sociale in molti regimi totalitaristi la disobbedienza è (o è stata) pratica costante e diffusa. Il mio più vero e profondo stupore, quindi, risiede nel constatare quanto poche siano state le “disobbedienze” o le “defezioni” note nel regime nazista.
Non posso e non voglio ulteriormente disturbarti, ma assai sinteticamente convengo con la Arendt sul fatto che la vera psicosi (al di là delle efferatezze “occasionali” che hai immaginato e che forse si sono pure potute verificare) è stata raggiunta attraverso la banalizzazione del male: un’intera società è stata immersa a tal punto in esso attraverso il legame del müssen da non riuscire più a discernere l’ordinario dall’atroce.
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#9
McLaud
Mi accorgo solo ora di un errore, all’ultimo rigo intendevo dire: “l’atroce nell’ordinario”.
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#11
McLaud
Sì, d’altronde faccio poco per nasconderlo…anche se prima ho parlato di “müssen” in un’accezione ed in un contesto assolutamente diversi da quelli kelseniani.
Più che altro mi riferivo alla dicotomia linguistica dei verbi implicanti il concetto di “dovere” in tedesco ed a quanto profondamente questa bipartizione sia radicata in quella cultura ed in quella società, senza contare l’intenso sentimento di appartenenza comunitaria che per esperienza personale ho potuto riscontrare in Germania.
Ah, naturalmente appoggio l’iniziativa di sostegno a favore dei fiancheggiatori di ogni mafia, il cui sforzo per la disgregazione di ogni principio di convivenza civile e democratica è troppo spesso ignorato. Ti ringrazio per aver finalmente portato alla luce la loro anonima battaglia…facciamoli sognare!
#1
prefe
mi suggerirono la nascita del genere musicale Industrial. Curioso, no?
–
mondiale!
MA nell’ultima foto non sarà mica un negro quello che suona la fisarmonica?
…
Spero…