Infocrazia

Pubblicato da Blicero il 18.05.2008

Quando ho iniziato, qualche anno fa, ero in assoluta buona fede. Mi ero impresso in mente, delicatamente ma con un certo piglio decisorio, le parole che Nabokov ha scritto nel romanzo “L’occhio”: “Ho capito che l’unica felicità a questo mondo sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare se stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue”. Pensavo fosse così. Con una precisazione: il mio occhio non è fisso; è dinamico, al plasma, iniettato di bit, di pixel, di font, di tipografia. E’ il portato dei tempi: l’occhio di Nabokov è anteguerra, del 1930. Il mio è calato nell’era digitale. Più che un occhio – cornea, retine, iride, cristallino, etc – è una telecamera, un registratore mobile, un browser biologico liquido, scorrevole ed implacabile.

Partendo da quella frase, si diceva, ho iniziato la mia discesa nell’infosfera, nell’underwelt dell’informazione. Imperativo categorico profondamente sentito, noblesse oblige, operazione socialmente appetibile. Volevo depurarmi dall’ignoranza, dalla deficienza di massa; sentivo ad un tratto l’impellente necessità di colmare e sopire quello strano senso di horror vacui che, non so né il come né il perché, mi creava l’assenza di notizie – assenza volontaria fino ad allora, nel senso che ero io a non volerle ricercare. Non le inseguivo, per nulla; men che meno i notiziari. Le opinioni mi scivolavano addosso, preso com’ero a cercare di condurre la mia esistenza, effimera e cortigiana, senza curarmi di ciò che accadeva nel resto del mondo.

Poi ho capito. Non mi ci è voluto molto. Ma ho capito che tutto è collegato. Ho compreso che non ci sono ne spazio, ne tempo, ne luoghi, ne meandri reconditi in Laos, in Birmania, oppure in Brasile, o in Argentina, o nella stessa Italia, che possano sfuggirmi, se la potenza del mio atto è sorretta dalla volontà. Il mondo, dopotutto, è fatto di collegamenti. E divoravo quotidiani, saggi, mi annegavo nelle televisioni, mi soffocavo con approfondimenti politici (talk show inclusi), incameravo settimanali su settimanali, mi abbonavo a mensili d’oltreoceano, leggevo il Time, l’Economist, Newsweek, – bibbie dello stardom capitalistico-informativo.

Non esistevano eventi al di fuori della mia sfera personale. Uno scandalo finanziario negli Stati Uniti; la corruzione in Brasile; il memoriale di un faccendiere rimasto imbrigliato nel crac Ambrosiano; la disgregazione dell’impero Sovietico, il golpe dell’11 settembre in Cile, la Cia, il Mossad, tutto, tutti. Eventi del villaggio globale che mi riguardano, che entravano, una volta digeriti, nel mio apparato interiore, sedimentandosi nella coscienza. Solo io, a patto di volerlo, ero in grado di espellerli, di rimuoverli.
Per farvi capire: una volta chiuso un libro i personaggi ivi presenti scompaiono, abbandonati nel dimenticatoio. Muoiono. Il lettore, infatti, ha il potere di decretarne la vita e la morte, le parole e le omissioni. Ecco, io facevo più o meno così: decretavo la vita o la morte delle notizie, e quindi dei loro protagonisti, filtrando ed epurando i cascami dell’informazione che ritenevo sfrondabili.

Diciamolo chiaro e tondo: ancora adesso non ne sono del tutto immune. Ero sommerso da pagine e pagine di dati, di atti, di documenti; scrollavo compulsivamente siti su siti, your information at our care, aggiornavo le migliaia e migliaia di bookmark del mio navigatore. Mi creavo vite parallele, ma non condividevo con nessuno la mia insaziabile bramosia, la mia tutto sommato sana devianza. O almeno non lo facevo veramente: fingevo, a volte spudoratamente, altre volte sommessamente, talora rabbiosamente, senza celare il disgusto per l’arretratezza dell’interlocutore virtuale di turno.

Internet, il web, ovvero il “sapere umano raccolto e collegato, ipercollegato, questo sito porta a un altro, questo fatto rimanda a un altro, un tasto, una cliccata di mouse, una parola di identificazione – mondo senza fine, amen” come scrive Don DeLillo in Underworld. Un sistema in crescita progressiva, abnorme, inarrestabile, com’è – passatemi la metafora – non fermabile il ciclo dei rifiuti; al massimo guastabile, modificabile, dirottabile. Immaginate piramidi di rifiuti, Babele di spazzatura di ogni genere, montati uno sopra l’altro, impressionante grattacielo: poi sostituitelo con le pagine dei siti, con il www, con il sapere umano raccolto e collegato e rilegato tutto insieme, un pastiche inestricabile. Questa, e scusate se è poco, era la mia personalissima ed amarissima Weltanschauung.

È proprio qui, però, che sono incominciati i problemi, quelli veri. Il flusso costante mi invadeva, pervadeva le mie giornate. Avevo rimosso la mia vita con quella degli altri, la schiena piegata dal peso della Storia e delle storie che masticavo ed immagazzinavo con certosina precisione – un archivio sterminato, gigabyte su gigabyte, cartelle su cartelle dentro cartelle. Ormai mi ero fatto altro, atto sempre meno all’osservazione di me stesso. Attaccavo. Facevo combaciare. Mi nutrivo di hyperlink. Ero sull’orlo del precipizio della realtà, curiosamente sospinto dalle dosi massiccie di realtà stessa, o presunta tale, che mi iniettavo su base quotidiana – che dico, base oraria.

L’intreccio perenne mi svuotava, mi rendeva docile, inane, vacuo; mi rendeva preda di facili raggiri, mi attraeva irrimediabile nel risucchio del complottismo, il mio surrogato ai fatti mancanti, ai buchi neri del mondo, alla geografia umana ancora inesplorata o inesplorabile. Sembravo uscito dal Pendolo di Foucault di Eco: mancavano solo i templari. Applicavo concetti tayloristi/fordisti/industriali al mio modo d’informarmi: degradavo le notizie a bulloni, ad ingranaggi di una macchinario monumentale, immenso e spaventoso. Prima mattina: rassegna stampa, cartacea e online; tarda mattinata: stampa estera, web e carta; pranzo: settimanale del giorno; pomeriggio: libri, e-book o brossura, rilegatura, in una parola carta. E così via, per tutto il giorno, fino a notte fonda.

Il crollo, ad un certo punto: inevitabile. Non subito, intendiamoci. Avevo deciso di interrompere il mio oliato meccanismo. Dopo quattro giorni, crisi d’astinenza paurose, con ripercussioni somatiche impressionanti, quasi da eroinomane privato dell’amata e riverita siringa. Allucinazioni, deliri d’onnipotenza, megalomania, mitopoiesi drogata e schizoide di mondi inesistenti, di eroi erranti e di errate elaborazioni. Ho pensato di andare dallo psichiatra: troppo degradante, però; non avevo mica una malattia, non facevo uso di droghe, insomma, amavo informarmi e non uccidevo nessuno.

Corretta valutazione. Da lì la risalita, dall’abisso in cui ero sprofondato. Ora ho ristretto il mondo. Non mi curo del genocidio in Darfur. La Somalia può scoppiare, ed il Kosovo può anche essere nuclearizzato. Certo, seguo ancora la politica interna italiana, senza digerire alcunché di concettuale (ammesso che vi sia) a riguardo. Sporadicamente compro il New York Times, ma non lo leggo mai: lo sfoglio mentre sono in bagno, appollaiato sulla tazza. Che si sparino pure, gli americani.

Ho ripreso la mia vita, finalmente, e sono felice. Veramente felice, mi sento sano. Osservo piccole cose, inezie: le tapparelle di una scuola sospese a metà, una finestra socchiusa, il parco cittadino ammorbato dalle cartacce. Di certo non mi lascio più impalmare dalla geopolitica. O dalla finanza offshore, dai paradisi fiscali e dai falsi in bilancio.

Sono uscito, finalmente, dalla tossicodipendenza dell’informazione.

Io, grande occhio fisso, vitreo, spento e asciutto; impietoso esaminatore del mio nulla interiore e di quello circostante. Uomo del mio tempo, dopotutto pur sempre apocalittico ed emarginato.

(Illustrazione: Pawel Kuczynski)

(Pubblicato anche su Mentecritica)

Condividi

Drop the Hate / Commenti (4)

#1

SKA
Rilasciato il 18.05.08

Come già ebbi modo di pensare/dire ai tempi della pubblicazione su MC è esattamente la stupenda raffigurazione dello stereotipo – romanzato in via idealistica – di “noi” insaziabili fruitori della società dell’informazione. Le notizie sono ovunque, le opinioni ancora di più, non dare il giusto peso nel proprio cervello a qualcuna di esse sembra quasi un torto irreparabile. Ma puntualmente ci ritroviamo a sfogliare pagine di morti ammazzati quotidianamente, commenti politici, scandali e tracolli finanziari. Con la vana speranza che questo possa accrescerci in qualche modo, e spesso lo fa. Ma nel momento in cui stringi i denti così forte che le gengive iniziano a far male, ti accorgi che forse è il caso di spegnere tutto e dedicarsi a sè stessi ed a chi abbiamo accanto.
Almeno per un po’, la notizia di quel che succede nell’altra stanza forse è più importante.
Grazie e complimenti, di nuovo.

#2

1manifesto
Rilasciato il 19.05.08

Da lì la risalita, dall’abisso in cui ero sprofondato. Ora ho ristretto il mondo. Non mi curo del genocidio in Darfur. La Somalia può scoppiare, ed il Kosovo può anche essere nuclearizzato. Certo, seguo ancora la politica interna italiana, senza digerire alcunché di concettuale (ammesso che vi sia) a riguardo. Sporadicamente compro il New York Times, ma non lo leggo mai: lo sfoglio mentre sono in bagno, appollaiato sulla tazza. Che si sparino pure, gli americani.

Ho ripreso la mia vita, finalmente, e sono felice. Veramente felice, mi sento sano. Osservo piccole cose, inezie: le tapparelle di una scuola sospese a metà, una finestra socchiusa, il parco cittadino ammorbato dalle cartacce. Di certo non mi lascio più impalmare dalla geopolitica. O dalla finanza offshore, dai paradisi fiscali e dai falsi in bilancio.

Sono uscito, finalmente, dalla tossicodipendenza dell’informazione.

Complimenti …stupendo …semplicemente stupendo :-)

con stima da 1manifesto

#3

Gad
Rilasciato il 19.05.08

Ecco qualche verso buttato giù tempo addietro, nella conflittualità fra una coscienza che sente ed una che solo subisce il mare magnum della “notizia”, insidioso oppio portatore di indifferenza in tutti quelli che invece costituiscono, perdonate l’ampollosità, la spina dorsale morale del Paese. Non credo si corra il pericolo di ripiegarsi su di sé negando il mondo, il mondo non si snoda negli artifici dell’agenda setting nè io desidero personalmente che si reagisca a questo “dettando l’agenda”, brigatisticamente. In che trappola atroce siam caduti, amici, e chissà se basta, come non basta al Winston di Orwell, tenere un diario scritto, appropriarci della carta, e poi anche averlo, un sito o un blog, ma come “in seconda battuta”. E credo che la privata repubblica esista o debba esistere, privatamente appunto, nelle pagine inchiostrate di ciascuno di noi…

TESTATA GIORNALISTICA
Qualunque giorno screma la razza
e i molti membri apprendono l’accaduto
dalla cucina o in sala da pranzo,
al criterio del pasto di tutti contro tutti.
Si sostiene un ciclo di annunciatrici
alla gara in cui il ventre più rotondo
ha fatto il suo dovere, tocca all’attore
di turno evitare il cibo e diventarlo.
Certe case ospitano giovani ormai
ribelli, lontani da tavola alla pronuncia
di omicidio, rapina e stupro:
che sperino di ottenere una parte, che si pieghino
ancora alle dinamiche del provino? Siete in errore.
I civili compiaciuti nel corpo dilagante,
le famiglie addormentate, lusingate dalle inerzie
tradotte suonano cifre di sepoltura, quei danni del semplice
portatore, interi settori sociali del sentito dire,
disarmati, spogliati e nudi.
Ritmi da racconto inesauribile, mai reagire.
I giovani sovvertiti, il loro odore di cinismo,
non c’è alternativa, forse la colpa per le tragedie
a cui si fa l’abitudine? L’assunzione a grande dramma,
la funzione da paradigma, la maternità malata,
un’isola al completo prosciugamento, le sevizie militari.
[Cogne, la Sicilia e Abu Ghraib]
Per grado di merito van fatte esistere nei cuori
o dimenticate, cos’è la razione di dolore in replica la sera?

Con affetto, Gabriele Nugara

#4

LPR
Rilasciato il 19.05.08

“L’accumulo di informazioni è il vero dramma del diventare troppo adulti. Qualunque elemento, anche il più insignificante, esplode come un fuoco d’artificio progressivo, richiamando catene di cose simili e già viste. Tutto avviene in una unità di tempo talmente breve da non essere quantificabile, perché nel frattempo ho già dimenticato tutto. E perché il fiore pirotecnico, che è così bello quando si apre rapido e colorato nella mia mente, risulta sempre pasticciato e incomprensibile quando cerco di disegnarlo su un foglio, scintilla per scintilla.”

Questa frase di Tommaso Labranca (semplicemente un genio) riesce a spiegare molto ma molto meglio cosa si intende per “infocrazia”.

Fomenta la discussione

Tag permesse: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>