Garbage Diorama

Pubblicato da Blicero il 29.04.2008

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Esponete la spazzatura, fatela conoscere. Lasciate che la gente la veda e la rispetti. Non nascondete le vostre strutture. Create un’architettura fatta di immondizia. Progettate fantastiche costruzioni per riciclare i rifiuti e invitate la gente a raccogliere la propria spazzatura e a portarla alle presse e ai convogliatori. Così imparerà a conoscere la propria spazzatura.

Don DeLillo, Underworld

9 – I rifiuti sono la nuova droga. I rifiuti hanno quel non so che di mistico e trasgressivo, come gli stupefacenti. I rifiuti fanno provare quel timore reverenziale, quasi religioso, che può farti provare la droga, prodotto immondo ed intoccabile e quindi venerabile, assuefacente, indispensabile. Volenti o nolenti, la spazzatura ce la portiamo dietro sin da quando siamo nati. Anzi, siamo nati insieme alla spazzatura, ed il nostro primo atto vitale, una volta vista l’incerta luce della vita, è stato quello di produrre spazzatura, di immetterci immediatamente nel ciclo dei rifiuti – il cordone ombelicale reciso, la carta, i tamponi, gli asciugamani, le lenzuola, i bicchieri di carta, le forbici e chissà cos’altro ancora. Questo era quello che pensava per sommi capi Delarge, ed era arrivato a questo conclusioni in un tempo relativamente breve.

Ora stava sfrecciando sull’autostrada A4 Milano-Brescia (ad un’altezza imprecisata) con la sua nuova Audi Q7, una grossa e pesante lama luminescente che tagliava l’asfalto, diretto ad un appuntamento di lavoro piuttosto importante. Lo stereo diffondeva energicamente nell’abitacolo le note di Tell me where it hurts dei Garbage, brano inedito contenuto nel loro primo greatest hits, Absolute Garbage. L’auto era stata presa in leasing, ovviamente; dopotutto, erano solo cinque anni che era nell’ambiente della gestione e dello smaltimento dei rifiuti. Era un mondo che lo appassionava, che gli apparteneva. Nient’altro che gli scarti degli altri, le vite altrui, l’altro mondo (sotterraneo) di cui qualcuno, diamine, dovrà pur occuparsi.

8 – La serratura della massiccia porta metallica verniciata di verde scattò. Era giunta l’ora. I vari interrogatori, fino ad allora, erano tutti racchiusi nel mutismo di ambo le parti. Il pubblico ministero Roberti entrò con aria evidentemente svogliata, già rassegnato ad uscire da quella porta con il solito: “Nulla da dichiarare, dotto’”. Nunzio Perella stava lì, avvolto nell’uniforme da carcerato, i polsi raccolti e costretto dagli schiavettoni, la testa abbassata, il respiro quasi impercettibile. “Allora – ruppe il silenzio Roberti – ha qualcosa da”. Perella lo bloccò, sovrapponendosi alla sua voce: “Dotto’, mi sono deciso finalmente. Mi voglio confessare”. Un sussulto colse il pubblico ministero, che rimase silente per qualche lungo secondo. Poi strattonò l’ufficiale giudiziario al seguito, e gli ordinò di stendere il primo, agognato verbale.

7 – Guarda – cumuli di monnezza. E’ ovunque, sembra quasi una comunità, fa quartiere a sè, è un’istituzione con il suo regolamento, ferreo e draconiano. È un diorama ctonio, popolato da divoratori onnivori e da creature forse mai esistite, partorite dalla spazzatura stessa, o dall’insieme composito di essa. Una nuova forma di vita, un pianeta dotato delle sue leggi fisiche, un ecosistema sfuggito all’infallibile genio ordinatore del Superiore. I sacchi di rifiuti erano ovunque, veramente ovunque. Chissà quanta vita che c’era, là dentro. La popolazione era inferocita, voltolavano massi, spranghe, bottiglie, sassi, pietre. L’ambiente era invaso da un puzzo penetrante e scandaloso, un miscuglio tra i lasciti dei lacrimogeni, i resti delle balle di rifiuti rovesciati dai cassonetti, il fumo degli stessi dati impietosamente alle fiamme, la diossina delle pattumiere incendiate – quanta ne era stata rilasciata l’altro giorno? Un attimo – 65 cassonetti per poco meno di 9mila microgrammi, pari a quanto veleno butta fuori l’inceneritore di Marghera in 546 giorni, lavorando ovviamente a pieno ritmo.

I gendarmi dello Stato facevano il loro lavoro, ma non erano lì né a proteggere né a servire. Probabilmente nemmeno loro sapevano che cosa ci stavano a fare, in quel posto orrido; chi davvero poteva sapere il da farsi? Erano protetti dai loro scudi, pagati dai contribuenti, le braccia protese verso l’alto a fendere manganellate, ora d’avvertimento, ora d’attacco, ora di difesa. Lo Stato si stava semplicemente e vigliaccamente proteggendo da sé stesso, bamboccio incauto che l’aveva combinata troppo grossa e che ora cercava irresponsabilmente di scaricare le proprie responsabilità sugli inerti, avvelenando la qualità della loro vita, abituandoli a non avere più nulla, a non chiedere più nulla, a non essere più nulla. Non c’era più nessuna differenza, agli occhi dell’osservatore attento ed imparziale, tra i sacchi di spazzatura per terra ed il cemento delle strade; tra le persone incappucciate, fasciate da fazzoletti e nascosti da pezze stese sul volto ed i poliziotti. Il rifiuto di Stato accomunava tutti quanti, monnezza eri e monnezza sarai sempre, per omnia saecula saecolorum, amen.

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Drop the Hate / Commenti (1)

#1

fabiola
Rilasciato il 01.04.09

il rissunto

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