Disoccupate Le Aule Dalla Verità
(Illustrazione: Shahd Abusalama)
Udienze lampo e inconcludenti. Avvocati, giudici e pubblici ministeri incompetenti, svogliati o che si addormentano durante la cross examination dei testimoni. Prove presentate a caso – o non presentate per nulla. Interrogatori appena abbozzati. Imputati che non si presentano in aula. Medici legali assenti. Assurde complicanze burocratiche. Procedure chicaneuse. Iniziato a Gaza lo scorso 8 settembre, il processo per l’uccisione di Vittorio Arrigoni sta diventando sempre di più una via di mezzo tra una cronaca giudiziaria scritta da J.G. Ballard, un Odradek medio-orientale e un incubo di Franco Cordero.
Gli imputati sono quattro giovani palestinesi: Mahmoud Salfiti, 23 anni; Tamer Hasasnah, 25 anni; Khader Jram, 25 anni; e Amer Abu-Ghoula, 25 anni. Rischiano la pena di morte, anche se la famiglia di Vittorio Arrigoni ha fatto sapere di non volerla vedere applicata. Tutti gli accusati fanno parte di “Tawhid wal Jihad”, la cellula salafita che secondo gli inquirenti sarebbe responsabile dell’uccisione di Arrigoni. Il “capo” del gruppo, il giordano Abdel Rahman Breizat, e un altro membro della cellula, Bilal al Omari, sono morti pochi giorni dopo il sequestro in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza di Hamas. L’ultima udienza del 5 gennaio 2012, la nona, si è risolta in un nulla di fatto: cinque minuti di dibattimento e processo aggiornato al 16 gennaio. Il 6 gennaio il quotidiano il manifesto aveva riferito che “le indiscrezioni annunciavano un’udienza di particolare importanza” e dunque si sperava di “assistere ad un dibattimento concreto” sui motivi “di un sequestro e di un assassinio che hanno generato forte sdegno a Gaza e in Italia”.
E invece niente. Amer Abu-Ghoula (l’unico agli arresti domiciliari) non si è nemmeno presentato in aula, nonostante l’obbligo di essere fisicamente presente nella gabbia degli imputati. Registrata l’assenza, la Corte militare ha subito spiccato un mandato di cattura. Successivamente, lo stesso tribunale ha rinviato l’udienza non appena la difesa ha comunicato di non aver ricevuto alcuni documenti relativi alle prove prodotte dalla pubblica accusa. Non è la prima volta che succede. Anzi. Piuttosto che ricostruire l’effettiva dinamica dell’omicidio, la pratica di rinviare le udienze sembra essere diventata la regola.
Gilberto Pagani – legale della famiglia Arrigoni – ha definito questa condotta processuale “una “pantomima pseudo-garantista” e, contattato telefonicamente, ha dichiarato a La Privata Repubblica che “da nessuna parte si fa un processo in questa maniera”. L’impressione più forte, prosegue l’avvocato, è quella di trovarsi davanti ad un “processo farsa” nel quale non si avverte “una grande volontà da parte delle autorità di dire tutta la verità”. Oltre a questa ritrosia istituzionale, la difficoltà di reperire informazioni ufficiali sugli sviluppi del procedimento è aggravata dal fatto che la legge palestinese non prevede la costituzione di parte civile all’interno di un procedimento militare. Gli atti, le prove e le confessioni degli imputati si possono dunque conoscere solo in aula. Il punto, come dice Pagani, è che i progressi del dibattimento “sono minimi, se non inesistenti. Non siamo ancora arrivati da nessuna parte”.
Da quanto si è potuto assistere in queste udienze, comunque, la principale strategia difensiva degli imputati non è quella di negare il coinvolgimento dell’omicidio – tutti hanno confessato di aver preso parte al sequestro – quanto piuttosto quello di ridimensionare il proprio ruolo addossando le colpe a Breizat e al Omari, che ovviamente non possono rispondere. Il movente del sequestro, la decisione di uccidere Arrigoni prima dell’ultimatum e la figura di Breizat sono elementi fondamentali che rimangono ancora avvolti nel mistero. Come ha scritto Michele Giorgio de il manifesto, una possibile spiegazione al delitto è stata data durante la prima udienza dall’avvocato Najar, che difende il vigile del fuoco Khader Jram: “Dalle confessioni e dichiarazioni del mio assistito e dagli altri imputati emerge che l’intento del gruppo […] era quello di sequestrare un occidentale per ottenere la liberazione dello sceicco Abdel-Walid al-Maqdisi [uno dei leader della fazione salafita palestinese, nda], arrestato da Hamas per attività sovversive”.
La scelta sarebbe ricaduta su Vittorio Arrigoni principalmente perché l’italiano “era conosciuto a Gaza” e, secondo l’assistito dell’avvocato Najar, “conduceva una vita poco conforme ai costumi locali, troppo da occidentale” – un’accusa comparsa anche nel video di rivendicazione del sequestro. Dalla confessione di Jram (riportata sempre ne il manifesto) emerge anche un particolare importante: il palestinese avrebbe seguito per due mesi l’attivista, passando poi le informazioni sui suoi spostamenti alla cellula salafita. Un altro imputato, Mahmoud Salfiti, ha rivelato alla polizia che tutti i membri del gruppo avevano accettato la decisione di Abdel Rahman Breizat di “eliminare l’ostaggio” qualora Hamas non avesse scarcerato lo sceicco al Maqdisi. Ma queste confessioni sono veramente affidabili? “E questo chi può saperlo? – risponde l’avvocato Pagani – Loro comunque non hanno negato le responsabilità, e nessuno ha detto di essere stato torturato o di aver subito pressioni. Fino a prova contraria, dobbiamo attenerci a queste confessioni”.
Il 16 aprile 2011, due giorni dopo l’uccisione di Arrigoni, fonti vicino alla fazione salafita “Tawhid wal Jihad” avevano negato che l’azione fosse stata ordinata dai vertici del gruppo: “È stata una iniziativa incomprensibile, compiuta da una cellula impazzita, fuori controllo, e che contrasta con l’insegnamento dell’Islam e i nostri interessi”. È vero quindi, secondo quanto detto lo scorso giugno dallo sceicco Abu Musab (un altro importante leader salafita), che il sequestro dell’attivista italiano è servito a Breizat e ai suoi compagni “per affermare l’esistenza della sua cellula”, e che gli stessi avevano organizzato “qualcosa che non sono stati in grado di gestire”? Finora il processo non ha fornito risposte plausibili a questi interrogativi – e, viste le condizioni ambientali, difficilmente lo farà. “La mia opinione – dice Pagani – è che la stanno tirando per le lunghe perché probabilmente ci sono dietro questioni politiche di cui non sappiamo. Se non c’è una motivazione politica, non riesco davvero a capire che altra motivazione possa esserci”.
In tutto ciò, come si stanno comportando le autorità italiane? “Le autorità italiane sono assolutamente latitanti”, sostiene l’avvocato della famiglia di Arrigoni. Il 15 aprile 2011 la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta per “sequestro di persona a scopo di terrorismo aggravato dalla morte”. Ma la cooperazione giudiziaria con le autorità di Gaza è impraticabile: la Palestina non è ancora riconosciuta come Stato e Hamas è considerata un’organizzazione terroristica dall’Unione Europea. Il legale afferma di aver mandato in almeno due occasioni (la prima questa estate, la seconda il 19 dicembre) raccomandate e mail certificate alla Procura di Roma, ai Ministeri di Esteri e Giustizia e al Presidente della Repubblica, senza mai ricevere una singola risposta. L’atteggiamento di totale disinteresse delle istituzioni italiane è “veramente scandaloso”: “Ci sono tutti i problemi politici che vogliamo, ma quando un connazionale muore all’estero in questa maniera è dovere del governo fare qualcosa, anche un minimo. Invece – conclude Pagani – non stanno facendo niente”.
La verità sulle ultime ore di vita di Vik, intanto, si allontana di udienza in udienza, perdendosi progressivamente in un oceano di compromessi politici, dissesto giudiziario e indifferenza generalizzata.
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