360 Km2, La Vita E Tutto Il Resto
Gaza. Una sorta di versione moderna del concetto di “splendore del supplizio” di Michel Foucault, dove vivere è un’esperienza estrema e imprevedibile, una terra martoriata dove tutto è già successo e tutto può ancora succedere.
Lina è una ragazza di 21 anni nata in Kuwait e tornata in Palestina insieme alla sua famiglia nel 1995. Studia letteratura inglese all’università islamica di Gaza, ascolta gli Outlandish (un gruppo danese di hip-hop impegnato formato da immigrati) e i Coldplay, disegna, scrive poesie e si informa tramite BBC, Haaretz, Guardian e la versione inglese di Al-Jazeera. Una ragazza normale in una situazione anormale, dopo Piombo Fuso Lina ha deciso di raccontare una terra, la sua, che in precedenza aveva duramente criticato. Per fare ciò si serve del suo blog, “360 km2 of Chaos“, e della sua aspirazione a diventare giornalista. Ho letto la sua storia per la prima volta sul quotidiano francese Libération, e ho dunque deciso di contattarla per farle qualche domanda.
La Privata Repubblica: Per la sinistra, la destra e l’opinione pubblica occidentale, Gaza è un posto pericoloso pieno di bambini, tunnel e terroristi. Insomma, com’è veramente la vita a Gaza?
Lina: È vero, Gaza è piena di bambini, ma anche di cittadini e di persone che stanno lottando per sopravvivere alla durissima realtà imposta dall’occupazione israeliana.
Per il resto, è difficile scrivere su come sia la vita a Gaza: puoi capirla solo quando la vedi con i tuoi occhi. Parlando in generale, la si può definire come una situazione anormale segnata dall’occupazione. dall’assedio e dal controllo totale su ogni movimento. Ciò nonostante, le persone cercano comunque di andare avanti, di vivere. Il tasso di disoccupazione è alto e di conseguenza c’è una grande sofferenza economica che rende la vita quasi impossibile. La mancanza di opportunità e di sviluppo portano alla mancanza di speranza.
La vita notturna di Tel Aviv è piena di club, pub, feste in spiaggia, ristoranti, etc. – in pratica, tutto quello che rende moderna e à-la-page una città occidentale. Dove si esce a Gaza per divertirsi?
Le piccole spiagge di Gaza si affacciano sul Mediterraneo e sono regolarmente visitate dagli abitanti. Ci sono anche dei parchi giochi per i bambini, anche se sono piuttosto scarni. Gaza, tuttavia, è un luogo in cui il divertimento non è strettamente legato al posto in cui ti trovi, ma alle persone che frequenti. Si tratta dunque della fortuna di stare bene insieme ai tuoi amici e alla tua famiglia, sia che si vada in qualche ristorante rinomato o che si stia semplicemente sdraiati sulla spiaggia.
Penso ai DAM, una band palestinese di hip-hop: è possibile produrre una cultura non politicamente orientata a Gaza? Qualcosa che abbia un suo valore intrinseco, qualcosa non letto o ascoltato solamente da attivisti o dalla gauche caviar perché, ecco, viene proprio da Gaza?
È difficile, ma possibile. L’attivismo digitale è una tendenza crescente non solo a Gaza, ma in tutta la Palestina. Gli artisti, tuttavia, si sentono poco incoraggiati ad esprimersi a causa della mancanza di supporto e della generalizzata incapacità di capire quello che può fare l’arte come strumento non violento/non politico. È un peccato, perché molti artisti hanno davvero talento, ma le circostanze politiche e sociali soverchiano e soffocano il loro valore.
Ad ogni modo su Internet ci sono sempre più blogger di Gaza che possono aiutare la causa palestinese, scrivendo le loro storie ed esperienze e contribuendo così a far crescere la consapevolezza intorno alla questione.
L’operazione Piombo Fuso, se si eccettua qualche reportage coraggioso fatto da un pugno di giornalisti, è stata generalmente considerata come la reazione (spropositata ma non troppo) di Israele al lancio dei razzi Qassam da parte di Hamas. Tu eri lì? È stato così orribile come non si è visto sui media occidentali?
Stando a quello che dicono molti che hanno vissuto la guerra del 1967, Piombo Fuso è stata la guerra più aggressiva di cui la Striscia sia stata testimone. Le condizioni anteguerra erano già estremamente critiche: penuria di cibo, acqua, attrezzature, medicinali e medici; senza contare le restrizioni alla circolazione. La guerra ha esacerbato una crisi umanitaria già esistente, e l’assalto ha riportato indietro Gaza di alcune epoche, dal momento che ha distrutto molte abitazioni e ha lasciato le infrastrutture vicine al collasso. Gli effetti della guerra si vedono ancora adesso, visto che la ricostruzione è di fatto impedita dall’assedio.
Io ero a casa quando il primo missile ha colpito la stazione di polizia. Nessuno si aspettava che Israele lanciasse un attacco di larga scala su Gaza. E quindi sì, eravamo tutti choccati, ma non sorpresi dalla brutalità e dalla capillarità dell’aggressione. I 22 giorni del conflitto sono stati molto tesi, e anche se vivo in un posto lontano dai confini nessun posto poteva dirsi veramente sicuro. Sottostare ad un destino incerto è una sensazione oltremodo snervante, ma la fermezza e il calore della famiglia ti danno la forza di andare avanti, giorno per giorno.
Alla fine di “To shoot an elephant”1, il “tuttofare” Mohammad Rujailah – mentre sullo sfondo un magazzino di aiuti umanitari dell’Onu colpito dalle bombe israeliane viene divorato dalla fiamme – più che incolpare direttamente gli israeliani, accusa la comunità internazionale per quello che è successo e succede tuttora in Palestina. Anche tu daresti la colpa all’Onu, all’Europa e alla comunità internazionale?
Sono molti i complici di quello che sta accadendo ai palestinesi a Gaza, nella West Bank e a Gerusalemme Est. Le istituzioni che tu hai citato sono assolutamente da incolpare, per vari motivi: il loro silenzio sulle violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale che Israele perpetra nei confronti dei palestinesi; la sostanziale legittimazione dell’occupazione; il supporto finanziario e militare a Israele. Tuttavia, è importante dire che molti europei e altre persone da tutto il mondo stanno sostenendo i palestinesi, e che il loro supporto è fondamentale e molto apprezzato.
Gaza è sempre raccontata dagli stranieri, e quasi mai dagli stessi palestinesi. Com’è la situazione mediatica?
A livello locale è buona, ma a livello regionale e internazionale non ha ancora la capacità né di imporsi né di formare l’opinione pubblica. Purtroppo le scuole di giornalismo sono scadenti, così come i media outlet. Molti giornalisti palestinesi sono coraggiosi e brillanti, ma l’unico modo di farsi sentire è quello di lavorare in agenzie di stampa o in televisioni rinomate a livello internazionale. In generale, il problema principale è che mancano quasi del tutto giornalisti che sappiano l’inglese, e questo comporta che di Gaza si occupino principalmente i non-palestinesi.
Come se l’occupazione militare, i blackout e l’embargo non fossero abbastanza, a completare il quadro c’è pure il logorante scontro di potere tra Hamas e Al Fatah. Ci può essere lo spazio per una “terza alternativa” in Palestina?
La lotta tra i due partiti sta costringendo i palestinesi a cercare un’alternativa, anche se l’attuale impasse politica sta minando la credibilità del politici, facendo sorgere dubbi sulla realizzazione delle promesse e dei programmi. Il vuoto politico è però così vasto che nemmeno le “alternative” si stanno attrezzando per diventare leader nel futuro.
Come chiedono i DAM nella loro canzone più famosa, “chi è un terrorista” nel territorio di questi tempi?
Dipende da cosa si intende per terrorista. Nei media mainstream, i palestinesi sono sempre stati dipinti come i “cattivi”. La definizione comune di terrorismo parla di atti diretti a colpire indiscriminatamente le persone, i civili in particolare. Ma per me il terrorismo è togliere la dignità alle persone occupando e togliendo loro la terra, negando il diritto a vivere liberamente. Stando ai fatti, i palestinesi sono quelli a cui viene tolto quotidianamente un pezzo di umanità – e questo rende gli occupanti e i loro sostenitori dei terroristi.
Scrivi in inglese, sei stata negli Stati Uniti per studiare e sembri decisamente influenzata dalla cultura americana (musica, letture, etc.). Allo stesso tempo il governo degli Stati Uniti è il più potente alleato di Israele, che acriticamente sostiene ogni sua mossa e decisione. Come ti rapporti a questa apparente contraddizione?
Questa domanda comprende due aspetti. Il primo è che la maggior parte dei palestinesi, me inclusa, fa una distinzione tra la politica americana e il popolo americano, che non può essere ritenuto responsabile delle malefatte dei suoi governanti. Ci sono molti americani che sono informati e che sono forti sostenitori della causa palestinese. Credo che noi, come palestinesi, abbiamo il dovere di coinvolgere più persone possibili e raccontargli la verità circa la realtà in Palestina.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, l’inglese è la prima lingua al mondo, ed è di conseguenza la chiave per raggiungere un pubblico molto vasto. Inoltre, credo di esprimermi meglio in inglese che in arabo, e quindi è anche per questo che scrivo in inglese.
Trovo che una parte della solidarietà per la causa palestinese sia decisamente più anti Israele/USA che pro palestinese. Può servire comunque?
La solidarietà ha puntato la luce dei riflettori sulle sofferenze dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione, ma purtroppo non sta influenzando chi prende le decisioni e i mass media. Un vero cambiamento potrà esserci quando sempre più persone saranno coscienti della situazione sul campo, in modo tale da far divenire il conflitto israelo-palestinese un problema sentito dalle persone, e non solo l’ennesimo segmento nel mondo delle notizie.
I coloni israeliani in questi ultimi tempi stanno influenzando sempre di più l’azione di governo israeliana. Secondo quanto scritto in un lungo articolo apparso sul trimestrale francese “XXI” (“Mon cousin, colon“, numero 11, estate 2010), il sogno dei coloni sarebbe quello di vedere una West Bank libera dai palestinesi. Quale sarebbe il tuo sogno?
Il mio sogno è quello di avere un paese libero, indipendente e pacifico. In altri termini, una Palestina libera, dove possa muovermi liberamente, decidere dove voglia vivere o andare. Il mio sogno è visitare Gerusalemme, pregare nella moschea di Al-Aqsa. Voglio sentirmi al sicuro nella mia patria, voglio goderne le sue bellezze. La Palestina è per tutti, per i musulmani, i cristiani e gli ebrei. Vorrei che in Terra Santa ci possa finalmente essere una coesistenza pacifica ed effettiva.
- Documentario su Piombo Fuso realizzato dal regista spagnolo Alberto Arce. [↩]
#1
la Volpe
bel lavoro, bravo