Croazia-Serbia: Quel Venerdì In Cui Non Successe Nulla
Alla fine Croazia-Serbia l’hanno giocata, e non è successo niente. D’altra parte, a dispetto della preoccupante vigilia di tensione descritta dai media italiani e occidentali (la cui visione è sempre più datata e fuori fuoco: si segnala per assurdità la presentazione del match su Repubblica), non si vede cosa potesse succedere di tanto grave in uno stadio privo di tifosi serbi.
Allo stesso modo non ci saranno croati a Belgrado nel match di ritorno; nel calcio, come in altri ambiti, la reciproca pulizia etnica si conferma una strategia mutualmente accettata e sostanzialmente di successo nell’ex Jugoslavia. Sarebbe bastato questo, ad ogni modo, a differenziare la partita di venerdì da quell’altro incontro al Maksimir1 e a sconsigliare paragoni giornalistici inappropriati.
Dal punto di vista calcistico, la partita non è stata granché: la Croazia si è confermata squadra assai più esperta ed organizzata, e si è trovata in vantaggio di due reti già nel primo tempo, senza neanche il bisogno di creare azioni da gol, bensì in seguito a gravi errori della difesa serba; nel secondo tempo, la più fresca rappresentativa serba ha avuto un certo predominio territoriale, ma non è riuscita a presidiare con efficacia la metà campo avversaria per incapacità di costruire il gioco (abilità in cui si è invece ottimamente distinto il giovanissimo croato Mateo Kovačić, al proprio debutto in nazionale).
Va comunque sottolineata la correttezza mostrata dai ventidue in campo, favorita nei croati dal risultato positivo e resa inevitabile nei serbi dall’acerba morbidezza dei più. Quanto al contorno di tifo nello stadio, l’inno serbo è stato sonoramente fischiato, e si sono levati in vari momenti cori come «Ammazza il serbo» o «Fossi nato serbo, mi ucciderei»: niente, insomma, che non succeda normalmente nella maggior parte degli incontri di calcio.
È vero tuttavia, a mio parere, che – come suggerito da alcuni, ad esempio dal Corriere della Sera – il confronto di venerdì può segnare un passo avanti nella stabilizzazione pacifica dei rapporti fra Croazia e Serbia. Dopo tutto, il risultato non ha irritato nessuno: la vittoria dei biancorossi era quello che i croati volevano e i serbi si attendevano, e la maniera in cui questa si è verificata non lascia spazio a recriminazioni di nessun genere.
È probabile che il 2-0 di venerdì non abbia ripercussioni in Serbia: l’opinione pubblica locale pensa per lo più ad altro e non attribuisce grande peso a uno sport che la delude invariabilmente da una decina d’anni, contro qualsiasi avversario; d’altra parte la sconfitta non è di quelle celebrabili o mitizzabili, come da tradizione del luogo, né l’orgoglio nazionale soffrirà molto da una singola battuta d’arresto contro una Croazia regolarmente superata in altri sport.
Le conseguenze, se ci saranno, si manifesteranno come al solito sul delicato terreno dell’identità serba, con l’infinito dibattito intorno ad essa: e un popolare opinionista sportivo è già riuscito a scioccare il Paese e ad insultare la numerosa minoranza musulmana, semplicemente invocando il ritorno in Nazionale del portiere appena accantonato (Vladimir Stojković, del Partizan Belgrado). Come ha fatto? Semplice: ha chiamato quest’ultimo, sulla tv nazionale, con il nomignolo che gli è stato affibbiato dai tifosi della Stella Rossa al momento del trasferimento ai rivali cittadini, ossia “Mustafa“. Tale soprannome si richiama, ça va sans dire, alla battaglia del Kosovo e al traditore per eccellenza dell’epica serba, quel tale Bogoje che passò ai turchi e si fece appunto chiamare Mustafà. Tutto ciò per dire che i problemi – anche mentali – dei serbi vanno parecchio al di là di una semplice partita di calcio.
Un esempio di quanto differiscano le lingue serba e croata. Un sito croato trova necessario “tradurre” il titolo serbo «Orlovi sagoreli na Maksimiru» (le Aquile – ossia la nazionale serba di calcio – bruciate al Maksimir) con il “differentissimo” «Orlovi izgorjeli na Maksimiru».
La vittoria può invece servire molto ai croati. Da un lato, essa azzittirà per un po’ l’ossessione nazionale per i vicini/nemici, della quale, proprio partendo dallo sport, ha scritto molto acutamente Sergio Tavčar2; ma soprattutto, prima ancora che far sentire i croati migliori dei serbi, il trionfo li tranquillizzerà sul loro essere diversi. Perché in fondo ciò che conta non è tanto battere il vicino balcanico; l’importante è essere sicuri di non somigliargli.
In questo senso, tuttavia, Croazia-Serbia non ha dato risposte sicure. È certo che la Croazia, nel calcio e non solo, ha raggiunto degli standard più avanzati ed europei. Le parole assai condivisibili del vice allenatore croato Igor Tudor («A differenza dei serbi, abbiamo una squadra e un collettivo»), se uno ci pensa un attimo, non riguardano soltanto lo sport. Zagabria, ormai alle porte della UE, ha innegabilmente percorso un lungo cammino dai giorni dell’indipendenza e dell’ubriacatura nazionalista, e di questo può andar fiera.
Per altri versi, però, la Croazia è ancora e sempre un paese balcanico, con ciò che ne deriva. Lo stesso avvicinamento alla partita, avvenuto nel segno di un’isteria galoppante fra certi media e certi partiti politici, la dice lunga sull’immaturità della «società civile» e di certe istituzioni: in un crescendo di irresponsabilità, si è passati dalla proposta di far battere il calcio d’inizio ad Ante Gotovina (il generale croato prosciolto di recente, fra molte polemiche, dall’accusa di crimini di guerra sui serbi di Krajina) alla richiesta di dichiarare persona non grata il tecnico serbo Mihajlović, reo di aver rilasciato alla Gazzetta una conciliantissima intervista, mistificata ad arte dall’ultradestra croata.
Fanno invece tenerezza – oltre a risultare anche troppo scoperti – altri tentativi da parte croata di auto-raffigurarsi come diversi e lontanissimi dai serbi (e in generale dai Balcani). Alla confusione ormai ventennale delle lingue, con ciò che ne consegue di assurdo (vedi immagine), si è aggiunta stavolta una scenetta particolare: pare che il tecnico croato Igor Štimac abbia regalato a Mihajlović «vino e olio d’oliva», ricevendo in cambio rakija e ajvar. E non basta, a rendere sensata una scena che meglio si sarebbe adattata a un Francia-Macedonia o a un Italia-Bulgaria, la circostanza che Štimac sia originario della regione di Dubrovnik, ossia della parte effettivamente più mediterranea dell’intera Croazia (mentre Mihajlović è nato a Vukovar da padre serbo-bosniaco e madre croata). Sono piccolezze, certamente, ma indicano una difficoltà da parte croata nel rapportarsi correttamente agli altri, tanto più alla Serbia.
In tutto questo si può allora individuare una psicosi croata e una debolezza serba; ma la prima è un disturbo del rapporto con gli altri, mentre la seconda è una perenne polemica con se stessi. È innegabile però che queste due nevrosi non abbiano un terreno comune, e che anche per questo motivo – per l’assenza cioè di un campo di battaglia – l’inimicizia fra Serbia e Croazia sia destinata a stemperarsi ulteriormente; lavora d’altronde per lo stesso effetto pacificatore il fatto stesso che le due nazioni vivano divise da vent’anni («Nessuno dei miei calciatori è mai stato in Croazia», ha detto Mihajlović: «Per loro è come giocare con il Belgio o la Scozia»).
Eppure è altrettanto innegabile che tali nevrosi nazionali esistano e vadano curate. Quella croata, forse, avrà termine con l’integrazione in Europa e la cancellazione di quella perenne ossessione per i propri vicini che si esprime a volte in comportamenti passivo-aggressivi; quella serba, involuta e a volte inconscia, sembra ancora lontana da una risoluzione. Ma è certo che avrà bisogno, essa pure, di buoni esempi; e il successo dell’organizzazione e del collettivo della nazionale croata di calcio sull’anarchia balcanica potrebbe essere uno di questi.
- Vedi anche “L’ultima squadra serba“. [↩]
- Si legga il suo La Jugoslavia, il basket e un telecronista. [↩]
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