Going Postal In Sicilia
«Far West a Gela». «Follia a Gela, spara dal balcone ai passanti: ucciso dalla polizia». «Notte di follia a Gela». «La notte di follia di un disoccupato di Gela». Questi sono alcuni dei titoli usati dai giornali per descrivere quanto successo il 22 dicembre a Gela, Caltanissetta.
Secondo la ricostruzione di Repubblica, quella notte un 42enne gelese – «di fatto disoccupato» che «lavorava saltuariamente come bracciante agricolo […] o manovale edile» – ha imbracciato il suo fucile da caccia legalmente detenuto, si è barricato in casa e, affacciandosi allo squallido balcone dell’abitazione in cui viveva con i genitori, ha dato sfogo «ad un’ira ispiegabile [sic] sparando contro chiunque si trovasse a passare nella zona»:
Contrada Scavone la notte scorsa si è traformata in una zona blindata dalle forze di polizia, impegnate a mantenere la calma e a tentare di convincere l’autore della sparatoria, Giuseppe Licata, a desistere. Non ci sono riusciti. L’uomo ha sparato contro il visto [sic] di un agente della Mobile di Caltanissetta. Il poliziotto ha perso la vista da un occhio. E’ stata una notte infernale.
Giuseppe Licata, tuttavia, non era solo nell’appartamento di via Arica: c’erano anche i genitori. La madre (70 anni) è scappata di casa, «e con gli occhi terrorizzati ha chiesto aiuto e contattato la polizia». Il padre invalido di 74 anni, invece, ha dovuto assistere al «gesto inconsulto» e al «raptus della follia» del figlio. «Si guardava attorno e sparava – dice Antonino Licata – ha colpito ovunque. Pensava che qualcuno potesse avercela con lui». Ad un’agenzia di stampa, il padre ha aggiunto: «Mio figlio però mi diceva “non ti tocco, non ti tocco” e poi è successo quello che è successo».
Verso le 3 di notte la polizia ha tentato di fare irruzione nell’abitazione. La freddissima cronaca del questore di Caltanissetta, Filippo Nicastro, narra un classico suicide by cop: «A quel punto Licata ha perso la testa e ha iniziato a sparare all’impazzata, ferendo gravemente a un occhio un poliziotto. La polizia ha risposto al fuoco colpendo mortalmente il disoccupato».
Licata è stato descritto dai vicini come un tizio «taciturno e irascibile» ma «non violento», ossessionato dall’eventualità che la polizia gli sequestrasse l’auto (non aveva i soldi per pagare l’assicurazione) e pieno di problemi mentali («soffriva di crisi depressive» e in precedenza era stato ricoverato al reparto di psichiatria dell’ospedale di Gela). Il 21 dicembre Licata aveva avuto «una crisi di nervi»:
È stato accompagnato all’ospedale di Gela dalla madre e dal cognato. I medici lo hanno visitato, avrebbero voluto sottoporlo a cure, ma lui si è rifiutato energicamente, dando in escandescenze. Non c’è stato verso. Al fine di rabbonirlo, la madre ed il cognato non hanno insistito, riportandolo a casa. Durante il trasferimento nella sua abitazione, in via Arica, nel quartiere di Scavone, è apparso docile.
Stando alle cronache locali e nazionali, il caso è pateticamente semplice: Licata era una specie di mostro, uno squilibrato improvvisamente emerso dall’inferno della disoccupazione, un pazzo con porto d’armi e 1500 munizioni che ha fatto una cosa totalmente folle, incomprensibile, inspiegabile. Tutti, però, si sono tenuti alla larga dall’analizzare il contesto in cui è maturata la “follia” di Licata. Ossia: come passava le sue giornate Giuseppe Licata? Cosa vedeva fuori dalla finestra di casa, in quei lunghissimi anni di lavoro ad intermittenza, nullafacenza e solitudine? Com’è la vita di un disoccupato cronico nella sperduta provincia siciliana?
Partiamo dalla disoccupazione. Nel secondo semestre del 2012 il tasso di disoccupazione in Sicilia è arrivato al 19,4%, registrando un vertiginoso incremento del 5,1% rispetto al 2011. Nella provincia di Caltanissetta la disoccupazione arriva al 27% (43,6% quella giovanile, la più alta in Italia). A Gela il tasso complessivo sale ulteriormente fino al 30% (dati del 2009). Sono numeri da Grande Depressione – così come lo sono le reazioni degli abitanti del luogo. Lo scorso 3 aprile una pensionata di 78 anni si è gettata dal quarto piano dell’edificio in cui abitava: aveva ricevuto dall’Inps 600 euro, invece dei soliti 800 con cui sopravviveva. Il figlio ha spiegato così il gesto della madre:
Le notizie della crisi economica in tv e i tagli operati dal governo avevano allarmato mia madre, come tutti gli italiani; purtroppo la riduzione della pensione ha avuto in lei un effetto dirompente. Si può anche non credere a queste cose, ma bisogna trovarsi in talune situazioni di profondo scoramento per capire quel che una persona, psicologicamente debole, è in grado di pensare, di progettare e di mettere in pratica, fino all’autodistruzione, fino alla morte.
Per quanto riguarda l’agricoltura siciliana, il decennio 2001-2011 ha visto scomparire 100mila aziende agricole, passate da 320 a 220mila. Tra il 1982 e il 2010, secondo l’elaborazione della Coldiretti su dati Istat, si è perso il 18,1% della superficie agricola utilizzata (da 1.694.094,13 ettari nel 1982 a 1.387.520,77 nel 2010). Secondo la Coldiretti si tratta di «un dato preoccupante perché riguarda sia i terreni più fertili che sono stati coperti dal cemento, ma anche le aree marginali che sono state abbandonate perché poco redditizie ed ora sono a rischio degrado per frane o incendi». Questo 20 dicembre – dopo un incontro con una delegazione di imprenditori agricoli della provincia di Ragusa, da diversi giorni in sciopero della fame – il Presidente della Regione Rosario Crocetta e l’assessore all’Agricoltura Dario Cartabellotta hanno dichiarato lo «stato di crisi dell’agricoltura in Sicilia».
Sul versante industriale, a Gela si vive una catastrofe occupazionale e ambientale davvero drammatica. Alla fine degli anni ’50 Enrico Mattei in persona aveva voluto che in città si costruisse un petrolchimico dell’Eni, e per diverse decadi a Gela – come scrive Giuseppe Pipitone – «la parola lavoro ha fatto rima con l’azienda del cane a sei zampe. Erano decine di migliaia gli operai che ogni mattina varcavano i cancelli del petrolchimico per portare a casa pane e lavoro. Oggi sono meno di duemila». Il 17 aprile 2012 l’Eni ha deciso di chiudere per 12 mesi una parte della raffineria a causa della «contrazione della domanda di prodotti petroliferi e del surplus di capacità di raffinazione». Il provvedimento ha colpito 500 dipendenti.
Il 22 dicembre (lo stesso giorno del “raptus” di Licata), la Società Siciliana Salvataggi ha ritirato i rimorchiatori per scadenza del contratto e licenziato 37 dipendenti. Di conseguenza, la capitaneria di porto di Gela ha chiuso il porto-isola gestito dall’Eni per «l’impossibilità di assicurare le operazioni di ormeggio e di disormeggio delle navi». Come riporta il Giornale di Sicilia,
La decisione dell’autorità marittima metterebbe a repentaglio la continuità produttiva della raffineria, i cui vertici societari hanno diffuso un allarmante comunicato nel quale si indica in 10 giorni l’autonomia operativa dello stabilimento, non potendo nè ricevere nè spedire i prodotti petroliferi. Se entro Capodanno non torneranno in servizio i rimorchiatori, con la conseguente riapertura del porto, l’Eni dovrà fermare ogni suo impianto dell’unica linea di raffinazione rimasta in attività.
Il 6 novembre 2012 la procura di Gela ha aperto un’inchiesta sulle malformazioni genetiche infantili. Scrive Il Fatto Quotidiano: «Alcuni bambini nascono senza un orecchio, altri con quattro dita alle mani, altri ancora con delle malformazioni al palato. Una percentuale superiore di sei volte rispetto alla media nazionale». Nel solo 2002 sono nati 512 bambini con malformazioni. La pm Lucia Iotti dovrà dimostrare l’esistenza di un nesso causale tra queste malformazioni e l’inquinamento prodotto dal petrolchimico. Secondo Sebastiano Bianca, genetista e perito della procura di Gela, «in trent’anni non è cambiato nulla: pur avendo dismesso gran parte degli impianti del petrolchimico le percentuali di malformazioni sono rimaste stabili. […] Il problema è che a Gela è inquinato tutto: dall’acqua, agli ortaggi, al cibo con cui viene allevato il bestiame».
Nell’ultimo anno, inoltre, gli abitanti di Gela sembrano essersi dilettati in un bizzarro passatempo: bruciare le automobili. Secondo il Giornale di Sicilia, nel 2012 sono state più di 200 le vetture date alle fiamme. Il 24 dicembre una Alfa Romeo 156, una Fiat 600 e una Chevrolet Spark – appartenenti a tre donne che le avevano lasciate in sosta sotto casa – sono state incendiate a pochi centinaia di metri dalla caserma dei carabinieri. Il 17 dicembre c’è stata persino una spedizione punitiva ai danni di un presunto attentatore, un giovane pregiudicato «riempito di botte» da un pasticcere incensurato di 20 anni.
In tutto ciò, il comune di Gela è strozzato dai debiti. Nell’ambito di un’indagine sugli enti locali, i funzionari del Ministero dell’Interno hanno ricostruito la cronistoria dei mutui accesi dagli amministratori locali per «far quadrare i conti o avviare lavori altrimenti impossibili da inaugurare». Nel 2001 l’amministrazione comunale aveva aperto un mutuo da poco più di 6 milioni di euro con scadenza fissata al 2025 e rate da 500mila euro; nel 2003 il mutuo è stato di quasi 7 milioni di euro con scadenza al 2023 e rate intorno ai 600mila euro; nel 2005 il mutuo era di 6 milioni e mezzo di euro con scadenza al 2025. A queste cifre vertiginose si aggiungono poi gli impegni finanziari assunti negli ultimi anni, in media quasi sempre superiori ai 500mila euro. La coperta, pur essendo già striminzita, va tagliata al più presto «per evitare spiacevoli conseguenze di cassa».
Da dove cominciare, dunque? Semplice: dai servizi sociali. Da alcuni mesi, infatti, il comune di Gela «non eroga più contributi in denaro ai disoccupati ma voucher, cioè buoni-lavoro del valore di 500 euro mensili, per attività da svolgere presso ditte convenzionate con il Comune. Da quando ha istituito questo sistema di sostegno sociale, le richieste di aiuto sono diminuite del 70%».
Il 24 dicembre si sono toccate con mano le conseguenze di questi tagli – e della sparatoria di Giuseppe Licata. Rocco Rodoti, disoccupato 58enne con precedenti penali, si è presentato negli uffici dell’Assessorato ai servizi sociali di Gela armato di scacciacani e taglierino. Rodoti ha minacciato di morte gli impiegati (che cercavano di nascondersi e mettersi al riparo) e urlato nei corridoi queste frasi: «Se non mi date i soldi del contributo faccio una strage, una carneficina, vi sparo come ha fatto Peppe Licata» (corsivo mio). Dopo qualche minuto Rodoti è andato via, avvertendo che sarebbe tornato. I carabinieri l’hanno prontamente arrestato per violenza e minaccia a incaricato di pubblico servizio e per possesso ingiustificato di armi.
Riformuliamo la domanda iniziale: come dev’essere la vita per un disoccupato cronico di 42 anni in una città indebitata fino al collo, in declino industriale da decenni, inquinata dal petrolchimico, dominata dalla mafia e nella quale gli abitanti si bruciano le macchine a vicenda? Dev’essere una vera merda, non c’è dubbio. Giuseppe Licata era sicuramente una persona disturbata, ma aveva capito di non avere alcun futuro. E quando nella tua vita si spegne quell’ultimo barlume di significato e subentrano miseria e rassegnazione, allora tanto vale prendere un fucile da caccia, sparare a caso dal balcone di casa e farsi uccidere volontariamente dalle forze dell’ordine. Dopotutto, è una fine leggermente meno penosa dell’infilarsi la canna in bocca e spalmare la propria materia cerebrale su carta da parati da quattro soldi.
In un certo senso, presentare un simile caso come un ridicolo «raptus della follia» o come il gesto inspiegabile di un fallito con turbe psichiche è rassicurante, perché rimuove un interrogativo realmente inquietante: quanti Peppe Licata pronti a scoppiare ci sono in Italia?
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Drop the Hate / Commenti (3)
#2
Prossimamente Sul Vostro Posto Di Lavoro | La Privata Repubblica
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#3
Luca
come avevi predetto, o come volevasi dimostrare?
http://www.repubblica.it/cronaca/2013/03/06/news/entra_in_uffici_regione_e_spara-53978780/
#1
F. Merlo
Festeggia il santo natale, ragazzo. Chiudere.