1984½
Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo “H”. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando. (Ennio Flaiano)
Da qualche parte, nel ventesimo secolo, il mondo è diventato grigio, asfissiato dalle scartoffie di una burocrazia opprimente, inaccessibile, soverchiante; soffocato dai tubi, dai condotti e dai fili di una tecnologia impazzita, retrograda e controproducente; racchiuso in una metropoli cupa, infinita e fuori dal tempo. Il sistema è sull’orlo costante del collasso, sbriciolato dalla composta furia ordinatrice del Sistema Centrale.
Benvenuti nell’oscuro e caliginoso mondo di “Brazil” (1985), la satira distopica, permeata da un irresistibile humour nero, di Terry Gilliam (ex Monty Python), geniale e visionario regista da sempre perseguitato da mille sfortune1.
Come ho imparato a convivere con il sistema
Gilliam ha definito il suo capolavoro “l’incontro di Franz Kafka con Walter Mitty”, fantasmagorica fusione tra le aporie dello scrittore praghese ed il sognatore della letteratura americana inventato da James Thurber. Brazil2, infatti, è un sogno intrappolato in un incubo. Il protagonista è Sam Lowry (ruolo cucito su misura per Jonathan Pryce), un anonimo e per nulla ambizioso funzionario del Ministero dell’Informazione, uomo all’apparenza perfettamente integrato nel sistema dal quale riesce a fuggire solamente grazie alla fantasia onirica.
Quello dell’appartenenza ad una struttura (politica o sociale) è uno degli innumerevoli temi sviscerati nel film. La realtà può finire fuori controllo non tanto per colpa del sistema, quanto piuttosto perchè il sistema è formato da ognuno di noi. La mostruosità sta negli ingranaggi, non nel macchinario. Nel sistema di Brazil non ci sono grandi leader, uomini forti o dittatori spietati: ci sono uomini che compiono onestamente il loro lavoro, per quanto aberrante questo possa essere3. Nessuno di questi, funzionario o semplice cittadino, può uscire dal percorso idealmente tracciato per loro dalla tecnocrazia.
Una simile impostazione porta inevitabilmente a sconvolgere l’asse dei problemi: non importa se un innocente viene annientato, insieme alla sua famiglia, a causa di un banale errore burocratico – un foglio mancante, una negligenza di un impiegato, uno scambio di nomi. E’ l’errore burocratico il male da estirpare, la disfunzione da correggere ad ogni costo. Soprattutto a scapito dei diritti civili e politici. Quando Lowry si accorge dell’anomalia diventa automaticamente un nemico del regime, un terrorista; ma diventa anche un simbolo. Il simbolo di un’umanità che cerca disperatamente di sottrarsi alla realtà rifugiandosi nei sogni, nelle visioni.
War of terror
Brazil è disseminato di esplosioni. Esplodono negozi, esplodono condotture dell’aria, esplodono ristoranti. Le bombe scuotono tiepidamente una popolazione completamente assuefatta, che il Sistema Centrale ha già ampiamente stritolato con i suoi tentacoli burocratici. Il governo ha la necessità di mantenere lo status quo, di perpetrare se stesso, e per fare ciò ha bisogno di un nemico. Ha bisogno della paura. Ha bisogno del terrorismo.
Tutti i nemici del regime sono dei terroristi. Ma non perchè organizzano stragi o sequestri: l’attentato più devastante è quello sferrato all’ordine costituito senza l’utilizzo della violenza. Harry Tuttle (interpretato da un sorprendende Bob De Niro), ad esempio, è un ingegnere clandestino che ripara tubi. Ma è anche (e per questo) un terrorista, perchè sovverte lo status quo: per riparare i tubi, infatti, serve l’autorizzazione del sistema, servono moduli da firmare, servono carte bollate. La lotta armata, in Brazil, si compie attraverso la deregolamentazione della vita.
Il vero terrorismo, in realtà, è quello di stato (suona familiare?). Una forma di terrore che non esita a far saltare per aria i suoi sottoposti e a ricorrere alla tortura per estorcere informazioni ai presunti “terroristi”. In pratica, Gilliam è arrivato ad Abu Grahib e a Guantanamo vent’anni prima del dovuto, così come Orwell era arrivato ai giorni nostri, ed oltre.
Aquarela do Brazil
Visivamente (e anche sonoramente4) il film è una meravigliosa deflagrazione di stili diversi, carico di riferimenti letterari, cinematografici ed iconografici. La curatissima scenografia miscela alla perfezione il barocco, l’art dèco, il noir, lo steampunk ed il cyberpunk, le architetture di Metropolis ed i blocchi squadrati dell’urbanistica fascista. Anche l’oggettistica (favolosi i computer) è una fusione tra epoche diverse, tra il retrò e l’avveniristico. Le atmosfere plumbee della metropoli sono spezzate solamente dalle scene oniriche, nelle quali la gamma cromatica si amplia a dismisura sino a sfociare nel fantasy.
Tutto il film è permeato da un simbolismo esasperato. I tubi, ad esempio, sono il portato tangibile dell’oppressione della burocrazia e del totalitarismo. Essi sono ovunque: nell’appartamento del protagonista sono inizialmente nascosti dietro i pannelli, salvo poi conquistare del tutto lo spazio abitativo (per un guasto causato dall’ingegnere pazzo interpretato da Bob Hoskins); nel Dipartimento dell’Informazione sono parte integrante dell’edificio, corrono sopra il soffitto; invadono gli uffici ed i ristoranti; nella casa della famiglia Buttle occupano più spazio degli esseri umani.
La povertà e la sudditanza al regime sono inversamente proporzionali all’invasività dei tubi. L’unico posto in cui questi non si vedono è il dipartimento per il Recupero delle Informazioni (che nel film non riesce mai a recuperare nulla), dove tutte le condutture vanno a confluire, il terminale ultimo del regime. Un regime impersonale, astratto, rappresentato dagli imponenti ed inquietanti palazzi che ospitano i vari dipartimenti.
Anche la presenza della tecnologia, peraltro praticamente inutilizzabile e spesso pericolosa, è assolutamente pervasiva ed arriva a contaminare anche la lunga sequenza finale, in bilico tra finzione e la realtà, nella quale Sam, tra le altre cose, è alle prese con un enorme samurai composto esclusivamente da componenti elettronici ed informatici.
Sleep on dream on
Brazil ha anticipato, purtroppo, gli ultimi trend in voga nelle democrazie odierne: la progressiva erosione dei diritti civili in nome di una sempre più artificiosa esigenza di sicurezza; le massicce violazioni alla privacy con la raccolta indiscriminata di dati sensibili; la sempre più pressante necessità per il potere centrale di regolare ed irregimentare Internet, ovverosia l’ultimo posto al mondo che dia qualche parvenza di libertà.
Una pellicola da avere ben presente, impressa in testa come monito, quando tutto andrà a rotoli e sarà il momento di rifugiarsi, come Sam Lowry, in un sogno fatto di ironia nera, incastonato in un incubo senza fine. Un tormento in cui dobbiamo dormire tranquillamente, senza porci tante domande. Sono gli altri a dirci cosa fare. Noi, semplicemente, abbiamo la libertà di vivere quello che ci viene imposto.
- Abbastanza ironicamente – specialmente se si considera che uno dei temi principali del film è quello sulle storture della burocrazia – Gilliam ha dovuto lottare strenuamente con gli studios di Hollywood per vedere il film proiettato nelle sale. Proprio così: non per evitare tagli selvaggi o scriteriati rimaneggiamenti. Per farlo uscire al cinema. [↩]
- Il titolo originale della pellicola doveva essere “1984½”, duplice omaggio ad Orwell e a Fellini. Per ragioni legate ai diritti d’autore (maledetto copyright) ed al fatto che nel 1984 era uscita la trasposizione cinematografica della celeberrima opera, Gilliam ha ripiegato su Brazil, dal titolo del leit motif del film: “Aquarela do Brasil”. [↩]
- Piuttosto esplicative le scene ambientante all’interno della camera per il Recupero Informazioni (cioè la camera delle torture), perfetta rappresentazione della banalità del male. Una chicca: il set è stato ricavato da una torre di raffreddamento di un impianto per la produzione dell’energia, nell’Inghilterra meridionale. [↩]
- La colonna sonora, oltre a riproporre continuamente il citato “Aquarela do Brasil”, è saturata da suoni metallici che si alternano a pezzi strumentali ed orchestrali – un alone acustico fragoroso che accompagna perfettamente lo stile debordante del film. [↩]
#1
AkillerDee
Sono recentemente entrato nel mondo di Terry Gilliam (non che non abbia mai visto “Fear and Loathing in Las Vegas”),ma Brazil è davvero un film semplicemente spiazzante:un “mai visto”,un “sopra ogni altro film”,un “genere”…Il terrorismo all’ordine del giorno,i buoni sentimenti nel grigio degli immensi palazzi della burocrazia (a mio avviso poi ripresi per le scenografie delle Gotham City di Tim Burton e Joel Schumacher),i polpettoni verdi numerati di un menu che evocano sapori di Auschwitz ed allo stesso tempo uno sfarzo da fare invidia alla Versailles del Re Sole,l’amore che sfida moduli e pratiche,il sogno che sfida l’apparente realtà sono solo alcuni aspetti di questo film.
Appena visto il finale di questo film vi chiederete:”ma cosa ho fatto tutti questi anni in cui non ho visto questo film?”
Questa domanda me la son fatta solo per Pulp Fiction,Memento e appunto Brazil.
Obbligatorio votare.